
PISTOIA. Leggendo e ascoltando l’intervento del Direttore di questo quotidiano (vedi qui e qui) all’assemblea dell’Ordine dei giornalisti, che si è svolta il 31 marzo a Firenze, una considerazione mi ha colpito in merito a quell’organismo di garanzia che opera in ogni ordine professionale: l’organo di disciplina che valuta il comportamento professionale di ciascun iscritto.
Quando parlo di “legalità” interna intendo sottolineare come certi comportamenti della professione debbano essere rispettosi delle norme e dei principi che, poi, normalmente, si riscontrano nella vita reale di tutti i giorni.
Quando Bianchini afferma che nell’Ordine dei giornalisti esiste un problema di legalità, e documenta questa sua affermazione, noi comuni, normali e intelligenti cittadini con una sacca di anni sulle spalle, possiamo solo sorridere.
Se esiste un problema di legalità, a livello comportamentale, nell’Ordine dei giornalisti, uguali problemi esistono in tutti gli altri Ordini rappresentativi delle categorie professionali, che se le cantano e se le suonano riducendo l’organismo di rappresentanza a puro elemento comunque assolutorio e benevolmente comprensivo per sé medesimi e per gli amici degli amici.
Qualche demente “in natura”, o abilmente logopedizzato, afferma che certi atteggiamenti e certi privilegi nascondono finalità di tipo “corporativo”, ben sapendo che il corretto uso del termine e la sua applicazione sono l’esatto contrario: il problema, il cuore di tutto, è nei personaggi che rappresentano questi Ordini e che, una volta chiamati ufficialmente in causa, si chiudono a riccio per salvaguardare non la professione ma, spesso, al contrario, l’infedele assolvimento delle norme dei loro assistiti.
Per la categoria dei giornalisti ha già espresso il suo parere il Direttore; io posso solo proporre alla vostra diretta valutazione il comportamento di due ordini professionali locali: quello degli architetti e quello degli avvocati, che non brillano certamente per linearità e per “pubblicità” degli atti.

Nel primo caso, quello degli architetti, a fronte di una precisa e documentata contestazione verso un suo iscritto con una esposizione corredata da atti e documenti, con la quale si contestava la validità di un progetto “venduto” come esecutivo – e che tale non era per mancanza fondamentale, fra l’altro, delle quote (misure) –, si rispondeva che il progetto poteva considerarsi o non considerarsi tale ma che, e qui viene il bello, la parcella andava comunque pagata. Bravi!
Con una prepotenza che esula dal privato di una associazione chiamata Ordine secondo cui il professionista, facendosi timbrare la notula dall’Ordine, può produrre un atto di rilevanza giuridica che il giudice è tenuto ad acquisire e che può formare, in sede giudicante, un elemento di giudizio.
Proprio così stanno le cose: io posso farmi fare un progetto “esecutivo” che tale non è e l’esimio Ordine degli architetti pistoiesi mi può rispondere “nì” ma obbligarmi al pagamento della notula. Chiaro il concetto?
Allo stesso modo dicasi dell’Ordine degli avvocati e al suo Presidente al quale ci siamo pubblicamente rivolti in relazione all’applicazione dell’art. 37 del codice deontologico, che vieta a due avvocati che hanno lo studio nello stesso stabile e, magari, la stessa sala di attesa per i clienti, di poter assumere il patrocinio di clienti aventi interessi confliggenti nel medesimo processo (vedi qui e qui).
Avete voi avuto una risposta esauriente? Se qualche pronuncia è stata effettuata, sicuramente sarà stata fatta con il classico colpo al cerchio e alla botte – e naturalmente in camera caritatis!

Dunque, tornando all’ipotesi sottintesa in premessa, e cioè la validità attuale degli Ordini professionali, non possiamo non dire che certe congreghe sviliscono le categorie che pretenderebbero di rappresentare; sono solo l’apice di un familismo professionale che muove i soldi degli iscritti a favore del potere di turno e che giustamente si può chiamare “corporazione”, non nella sua accezione nobile e storicamente condivisa ma, piuttosto, nell’attuale concezione di gruppo, consorteria, filiazione, associazione e quant’altro ancora.
La differenza non la fa il nome, la fanno gli uomini! E gli uomini di queste professionali congreghe, il più delle volte, non fanno gli interessi della collettività attraverso un rigoroso controllo cui sono tenuti i loro iscritti, ma, al contrario, rappresentano una “zona franca” per i più “intraprendenti” e “spregiudicati”.
Non per niente il Parlamento della Repubblica Italiana, etc. etc. rigurgita di avvocati, giornalisti e magistrati.
Qualcosa vorrà pur dire, no?
[Felice De Matteis]
Vedi anche:
Buon giorno Felice, a costo di farmi dare del qualunquista, io gli ordini li abolirei. (punto)
Per farlo naturalmente ci vorrebbe una forte spinta popolare, che viene dalla consapevolezza collettiva e dalla presa in carico della responsabilità personale, di interessarsi, vagliare, giudicare i professionisti di cui ci serviamo, promuovendo i migliori ed escludendo i peggiori: si chiama economia di mercato. Concetto che nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Italiane, dove la gente è stata educata all’accattonaggio, me ne rendo conto, suona come un’eresia.