QUESTA SETTIMANA nel mondo ancora la Cina sotto i riflettori. Il Parlamento Europeo ha infatti votato con un no alla candidatura della Cina per essere riconosciuta come economia di mercato.
In teoria la decisione è sacrosanta, in quanto trattasi di economia largamente sovvenzionata dallo Stato, che è anche spesso datore di lavoro. In pratica potrebbe rivelarsi uno dei tanti errori cui va incontro questo Vecchio Continente, vecchio non tanto nell’anagrafe quanto nella testa di chi governa e della gente comune.
Infatti non sfugge a chi si occupa come me, anche a livello semi-professionale, di economia, che la Cina non può crescere oltre con la sola esportazione.
Lo stiamo vedendo benissimo in questi mesi. Per questo motivo se vorranno continuare a svilupparsi, e lo vogliono, dovranno creare e far crescere un mercato interno spinto dal desiderio di consumo di beni ad alto valore aggiunto, da parte della sempre più folta borghesia benestante.
E i beni ad alto valore aggiunto si producono in Usa ed Europa. Ecco perché chiudersi nel protezionismo non è la soluzione ma il problema.
Attualmente l’Europa protegge le proprie aziende dalla concorrenza cinese con una sessantina di dazi. L’Italia è in prima fila a mettere muri e paletti al riguardo, appoggiata dagli industriali dell’acciaio tedeschi (finalmente una cosa su cui siamo insieme) ma non, dal governo tedesco, che invece è favorevole al riconoscimento della Cina come economia di mercato.
Tale riconoscimento non è simbolico, ma implica l’abbattimento delle barriere commerciali, con una maggiore facilità dei commerci da e verso la Cina.
Voi mi direte: ma che sei matto? Non siamo già abbastanza pieni di prodotti cinesi?
Io vi rispondo che siamo pieni di prodotti di bassa qualità, che non ha più senso produrre in Italia, ma che il consumatore può scegliere di comprare roba di qualità migliore, pagandola di più come succedeva un tempo quando una batteria di pentole in acciaio, per esempio, era un acquisto importante per la famiglia.
Costava e doveva durare per sempre. Mentre oggi esistono batterie intere a 100 euro, made in Cina, in acciaio e che durano quello che durano. Il potere è nelle nostre mani. Mai come oggi possiamo scegliere quanto e cosa consumare.
Ma tornando ai dazi, indovinate chi proteggono soprattutto? Il 40% delle aziende protette in tutta l’Europa, sono italiane. Questo perché, se escludiamo il design e la moda, la nostra nazione produce merce a basso valore aggiunto, roba che i cinesi fanno a parità di qualità, con costi inferiori ai nostri. Il tessile a Prato ne sa qualcosa vero?
Ecco perché l’Italia è contro l’abolizione dei dazi ed ecco perché invece non lo è la Merkel, ma lo sono i produttori di acciaio tedeschi. L’acciaio è un prodotto a basso valore aggiunto e quindi molto esposto alla concorrenza cinese.
Il punto vero è che mentre la Germania, grazie alle riforme del 2003, ha portato l’indice di produttività a 103, il nostro continua a scendere e siamo a 98.
Quindi è chiaro che, soprattutto ora che non possiamo più svalutare la moneta, noi speriamo di poter continuare a sostenere le nostre aziende con il protezionismo e gli aiuti di Stato (in questi giorni l’Ue apre una procedura d’infrazione per gli aiuti di Stato all’Ilva, un’acciaieria che andava risanata e venduta e che invece, come accade ora alle banche, è di fatto acquistata dallo Stato Sovietico Italiano).
È chiaro che è questione di tempo, ma la storia, dimostra a tutti, tranne ai disinformatori di regime, che l’apertura ai commerci ha sempre, e sottolineo sempre, portato maggiore ricchezza nelle nazioni che vi hanno aderito.
Non ha senso chiudersi, bisogna decidersi a fare le riforme necessarie ad aumentare la produttività e gettarsi a capofitto nella produzione di beni ad alto valore aggiunto, dove abbiamo dimostrato, che se vogliamo non siamo secondi a nessuno.
La Cina diventerà economia di mercato anche se ci vorrà ancora tempo, il Ttip verrà approvato e questo consentirà a europei e americani di mantenere una predominanza sugli altri ancora a lungo; e però consentirà anche a questi ultimi di crescere e dare condizioni di vita paragonabili alle nostre come è sacrosanto che sia.
E questo sarà il modo migliore per ridurre al minimo il rischio di guerre devastanti. La chiave è aprirsi, non chiudersi: naturalmente sulla base di requisiti minimi irrinunciabili, che iniziano con il rispetto della dignità dei lavoratori e finiscono con la libera espressione del pensiero.
ECONOMIA CINESE = SALSICCE
MEGLIO NON SAPERE COSA C’È DENTRO
Quanto scritto sopra va completato, affinché sia chiaro a tutti che la crescita cinese, che ora dovrà mutare pelle, è stata costruita, in questi anni, sull’export, sulle aziende statali largamente sovvenzionate e su una montagna di debiti.
Infatti i cinesi hanno impostato tutto su costi di manodopera bassissimi, che ora sono venuti meno, e su una sovra produzione con cui inondare il mondo a prezzi bassissimi.
La cosa ha funzionato fino a che il resto del mondo non è entrato in crisi. Poi, pur di non abbassare la produzione, si è passati al sottocosto, come nel caso dell’acciaio, con un vero e proprio dumping sostenuto dai debiti.
Ora però accade che ben 9 grandi aziende cinesi falliscono clamorosamente. L’ultimo caso è quello della Nanjing Yurun Foods Co., produttrice di… salsicce, che dopo aver venduto 1 miliardo di yuan ($ 153m) di bond nel 2013 con scadenza triennale, non è riuscita a rimborsarli, e che segue a 500 milioni di yuan di bond non rimborsati a marzo che erano stati rilasciati nel 2015.
Il direttore della società Zhu Yicai è stato messo agli arresti domiciliari e la società ha registrato una perdita di 1,58 miliardi di yuan l’anno scorso.
I DATI
Ma veniamo ai dati salienti della settimana. Partiamo proprio della Cina, che aveva iniziato domenica scorsa, con in crollo delle importazioni e un forte calo delle esportazioni (vedi articolo precedente): ha poi proseguito con i dati sull’inflazione che segna un bel -3.2% sui prezzi alla produzione di aprile e un 2.3% su quelli al dettaglio, in calo sul mese precedente e chiudendo poi con un calo della massa monetaria circolante. Ancora segnali poco rassicuranti.
La Gran Bretagna, in pieno psicodramma Brexit, ci segnala già delle vistose conseguenze, con un crollo del mercato immobiliare relativo ai fondi commerciali: le aziende hanno bloccato gli investimenti in attesa dell’esito del referendum. Carney, il Governatore della Boe (banca centrale inglese) nel discorso post riunione del board della banca stessa ha prefigurato scenari catastrofici in caso di uscita dall’Ue, tanto per gli inglesi, quanto in parte per l’Ue stessa.
Ne riparleremo, ma il rischio è che questi ripetuti interventi di banchieri e politici, soprattutto stranieri (clamoroso Obama) contro la Brexit, rischiano di indispettire la gente e spingerla a votare a favore.
E GLI USA?
Gli Usa ci propongono una forte vendita dei beni al dettaglio: +1.3% in aprile rispetto al -0.3% del mese precedente.
Questa è un’ottima notizia, perché fino ad oggi la ripresa Usa non ha mai o quasi mai visto, in parallelo e contrariamente alle fasi precedenti di crescita, il ritorno al consumo degli americani, che si sono mostrati, in questi anni, molto prudenti (vista la scoppola del 2008).
Vediamo. Il Pil ha dato segni poco incoraggianti, ma ora inizia la stagione migliore per l’economia Usa. La verità la sapremo in autunno.
LE BORSE E IL PETROLIO
Su questo fronte non ci sono grosse novità, anche se è stata una settimana di ribassi dove la nostra si è distinta per performance peggiori delle altre, trascinata giù, ma guarda un po’, dal settore bancario….il più solido del mondo. Ma ci torneremo.
Il greggio resta intorno a 44-46 dollari al barile: ripeto la mia previsione di un greggio a 25- 30 dollari tra dicembre e gennaio 2017.
[Massimo Scalas]