PISTOIA. Gianpiero Ballotti ci invia:
«Oggi che si fa e si sente un gran rumor di papi, vorrei descrivere un po’ di silenzio. Mi provo.
Certo non poteva mancare il runore dopo la gloria di Giovanni Paolo, la grande umiltà di Benedetto, l’esplosione vitalistica di quest’ultimo, Francesco, arrivato “dalla fine del mondo”.
Certo, sono d’accordo anch’io. Perché anch’io credo di credere anche se, almeno per ora, non ho risolto. E quindi lungi da me ricorrere a quella meravigliosa risposta di quel grande il quale – disturbato dalle critiche di certi preti provinciali, noiosi e pettegoli quanto mai – rispose: fate pure, perché per quanto mi riguarda “grazie a Dio, sono ateo”.
E quindi, in uno stato di perenne incertezza che viene da molto lontano, il “mio” pontefice resta Paolo VI. Il papa targato Vicenza. Si, proprio lui. Lui perché ha creato molti dubbi e lo sapeva. Perché era un uomo che soffriva intensamente, e che si è portato dietro forse più che un mistero, un’angoscia. Che non ha saputo esprimere tutta la propria volontà, tutto il proprio essere, avvolto da un dramma interiore dal quale non è uscito.
Perché Giovanni XXIII gli aveva mietuto l’erba sotto i piedi e i tempi avevano per sempre tolto al papa sia la sicurezza che poteva ottenere anche un Pio XII, sia la possibilità dei grandi gesti di un Benedetto XV.
Il papato di Paolo VI, di forze e momenti contrastanti e antitetici, ha fatto sì che questo papa, come uomo, ne sia rimasto prigioniero dentro di sé: e anche questo aspetto mi convince e mi commuove.
Attraverso le immagini televisive ne intuivo la sua sofferenza. Perché era uomo privo di leggenda: nessuna possibilità di tendere verso l’aristocrazia terrena, nessun connotato personale di cui si esaltasse, anche demagogicamente, la povertà.
E il suo papato: una sosta e, insieme, una sintesi, perché bisognava sistemare ciò che Giovanni XXIII aveva enunciato e promosso.
Io dei preti, tutti i preti, fino al papa, ho sempre ammirato e amato più di ogni altro aspetto, la capacità del loro rimanere uomini.
Qui di seguito la meravigliosa lettera che Paolo VI scrisse a mano, diretta agli “uomini delle Brigate rosse”, invitandoli a restituire la libertà all’onorevole Aldo Moro.
“E questo fia’l suggel che l’uomo sganni” circa la modernità – e la grandezza – di Paolo VI.
“Io scrivo a voi uomini delle Brigate rosse: restituite alla libertà, alla sua Famiglia, alla vita civile, l’onorevole Aldo Moro. Io non vi conosco, e non ho modo d’avere alcun contatto con voi. Per questo vi scrivo pubblicamente, profittando del margine di tempo, che rimane alla scadenza della minaccia di morte, che voi avete annunciato contro di lui. Uomo buono e onesto, che nessuno può incolpare di qualsiasi reato, o accusare di scarso senso sociale e di mancato servizio alla giustizia e di pacifica convivenza civile. Io non ho alcun mandato nei suoi confronti, né sono legato da alcun interesse privato verso di lui.
Ma lo amo come membro della famiglia umana, come amico di studi, e a titolo del tutto particolare, come fratello di fede e come figlio della Chiesa di Cristo. Ed è in questo nome supremo di Cristo, che io mi rivolgo a voi che certamente non lo ignorate, a voi, ignoti e implacabili avversari di questo uomo degno e innocente, e vi prego in ginocchio, liberate l’onorevole Aldo Moro, semplicemente senza condizioni, non tanto per motivo della mia umile e affettuosa intercessione, ma in virtù della sua dignità di comune fratello in umanità, e per causa, che io voglio sperare avere forza nella Vostra coscienza, d’un vero progresso sociale, che non deve essere macchiato di sangue innocente né tormentato da superfluo dolore.
Uomini delle Brigate rosse, lasciate a me, interprete di tanti vostri concittadini, la speranza che ancora nei vostri animi alberghi un vittorioso sentimento di umanità. Io ne aspetto, pregando, e pur sempre amandovi, la prova”».
Gianpiero Ballotti