PISTOIA. Puoi sentirlo migliaia di volte il concerto per violino di Tchaikovsky e trovarvi dentro, nelle sue innumerevoli pieghe, affondi, salite, discese, cascate, strappi, cadute, riprese, sempre motivi per ascoltarlo di nuovo.
Ed ogni volta ti chiedi come sia stato possibile che un uomo abbia potuto comporre un concerto così denso di significato e perciò assolutamente meraviglioso.
In verità è un interrogativo che mi pongo spesso di fronte a quei capolavori della “musica d’arte” che con la loro bellezza ti allietano la vita, non nel senso di renderla meno pesante, ma che hanno la intrinseca qualità di fartela capire e perciò apprezzare di più: ti richiamano alla fine alla responsabilità verso te stesso e nei confronti degli altri.
Per quanto mi riguarda ascoltare la musica è quindi sempre e comunque “una lezione di vita”. L’ascolto è stimolo per ricapitolare quello che hai alle spalle e quello che pensi dover trovare davanti a te nel tuo cammino che siano le tue speranze, le tue paure, incertezze o dubbi che sempre ti inseguono.
È un modo assolutamente “oggettivo” per guardarmi allo specchio, senza infingimenti. Da una parte pensare che una persona, come alla fine sei anche tu, possa aver composto quella partitura così incredibile ti spinge a pensare che l’uomo, quantomeno nelle sue espressioni più positive, è una creatura che tiene custodito un mistero quasi immortale e, allo stesso tempo, ti induce a confermare il tuo convincimento che, di fronte a così alte rivelazioni del genere umano, la dote che devi continuamente preservare è quella dell’umiltà, anche in un mondo nel quale la stessa sembra essere un difetto.
La tredicesima stagione di musica sinfonica della Promusica di Pistoia si è appunto aperta con un’esecuzione di quel concerto del compositore russo. Chiarisco subito che il mio commento non può essere né preso troppo sul serio dal punto di vista della critica musicale (sono solo un grande appassionato di musica), né può essere considerato imparziale visto che l’Orchestra Leonore, nata appena tre anni fa nella nostra città, la sento un po’ una creatura anche mia.
Troppe sono infatti le cose che ho condiviso con il direttore Daniele Giorgi, l’assistente del direttore e dell’orchestra, Elena Favilla, nonché tutti coloro che hanno condiviso quella scelta nata da una spontanea convergenza su quello che è stato e dovrà essere il progetto della Fondazione Promusica, ben al di là nella nascita di una nuova compagine orchestrale.
È assolutamente disarmante veder arrivare un “ragazzino” di soli 21 anni sul palcoscenico, magro con un gran ciuffo, con appeso alla mano un violino e immaginare che sia lui ad eseguire una delle partiture più difficili della storia della musica tantochè ben due violinisti, successivamente alla composizione del concerto da parte di Tchaikovsky, si rifiutarono di eseguirlo per primi.
Ma dopo che l’orchestra accenna sommessamente e poi in crescendo il primo movimento il ragazzino inizia a far suonare lo strumento con una disinvoltura ancora più disarmante, l’archetto inizia a muoversi ad inclinarsi per andare a cercare le note più acute o più grevi quasi che fosse la cosa più facile del mondo.
Talento, dono immenso della natura, certo accompagnato da tanto studio, impegno, sudore, ma se la sua stessa natura non lo avesse “chiamato” pensi non saresti ora lì ad ascoltarlo.
Ti viene in mente un bellissimo libro che hai letto tanti anni fa di James Hillman, Il codice dell’anima, nel quale lo psicanalista americano teorizza e cerca di dimostrare, con numerosi esempi tratti anche dalla vita di artisti, che in ognuno di noi esiste un daimon, un’immagine innata, un’unicità che chiede di essere vissuta e che in alcune persone si manifesta in modo così forte da non poter non essere seguita, una vocazione alla quale è, in sostanza, impossibile opporsi.
Ma non c’era solo lui, Emmanuel Tjeknavorian, sul palco ma anche un’orchestra, la Leonore, a interpretare assieme a lui quella musica immortale. Nel secondo movimento in particolare hanno iniziato a dialogare, a parlarsi vicendevolmente, a inseguirsi l’uno con l’altra. Quel dialogo, come prevede la partitura, si è fatto particolarmente intenso anche se lieve, fra il violino e i fiati, con quel suono della restante parte dell’orchestra sospeso tanto da farti trattenere il fiato per non perderti neppure una nota.
E poi tutto proseguiva con l’intera orchestra in sottofondo e sempre i fiati e il violino a dialogare, dove nulla andava perduto né il suono dei violoncelli, nè il pizzicato dei violini, facile a dirsi difficile da eseguire con quella “comunità di enti”, con quella capacità di ascolto reciproco che inevitabilmente coinvolge anche te lì a sedere che ascolti ma vorresti essere in mezzo a loro.
Ma ancora di più l’orchestra con quegli eccellenti musicisti provenienti da diversi paesi esprimerà tutta se stessa nell’ottava di Dvorak e pure nel bis, un brano di un compositore che fa musica “vera” (non per intenderci quella musica, peraltro ormai datata, che vorrebbe essere sperimentale ma che spesso nasconde solo ego smisurati di chi la scrive): Paolo Mazzocchi, che ho conosciuto solo un anno fa e che è stato apprezzato a Pistoia anche per la sua disponibilità e capacità di orchestratore di professionisti e ragazzini alle primissime armi.
E allora commosso pensi che forse un po’ della strada che abbiamo con coraggio intrapresa insieme è stata percorsa con successo, pensi che il tempo che tutti quanti abbiamo dedicato a questa esperienza così viva e peculiare di una città come Pistoia non è stato affatto speso invano, né tantomeno andrà perduto.
[luca iozzelli]