ALESSANDRO CAPECCHI: UN CATASTO DI GUAI

Alessandro Capecchi
Alessandro Capecchi

PISTOIA. Affermare che la nostra città è tra quelle in Italia in cui si verifica il maggior divario tra valore di mercato e rendita catastale, è frutto di un calcolo semplicemente numerico che non tiene conto delle condizioni reali del territorio, forse accentuato da coloro che vogliono giustificare qualche altro provvedimento vessatorio di natura fiscale, tanto cari ai governi degli ultimi anni.

Da noi gli immobili presentano infatti un rapporto tra reddito e valore inferiore rispetto ad altre zone, ovvero gli affitti sono più bassi che altrove rispetto al capitale impiegato.

Il che trova conferma in rendite catastali relativamente basse, che derivano dagli studi fatti, sia in occasione della istituzione del Catasto Urbano che delle varie revisioni degli estimi catastali (l’ultima è del 1992), dalle Commissioni Censuarie, le quali non lavorano casualmente come chi parla oggi di questo argomento, ma determinano la rendita secondo le regole dell’estimo ed il principio enunciato dal R.D. del 1939, in sintonia con la realtà economica locale, prevalentemente rurale ed evidentemente più modesta di quella di città turistiche, industriali o universitarie. Sarà forse per questo che la prima parte della riforma è proprio mirata a cambiare tali commissioni?

RENDITA E VALORE

Si deve osservare poi che non tutte le categorie catastali “soffrono” di questa discrasia tra rendita e valore; infatti nessuno fa rilevare in questo panorama di terrorismo fiscale, che le categorie come le A10 (uffici) e le C1 (negozi) o le C3 (laboratori) spesso presentano “valori catastali” superiori a quelli effettivi, per cui, in caso di compravendita, il contribuente è costretto a pagare un’imposta non dovuta pur di evitare contenziosi con il fisco.

Inoltre, anche il passaggio dai vani ai metri quadrati è in realtà una forzatura, perché avere 8 vani di 15 mq è sempre meglio che averne 4 di 30! Basta chiedere ad un qualsiasi agente immobiliare per capire la differenza. Ciò anche in considerazione della recente crescita degli immobili e del recupero di alcune aree fortemente degradate della città, che ha certamente aumentato la forbice tra rendite e valori prima della recente crisi.

E proprio a Pistoia, in mancanza di una revisione seria della realtà da parte degli organi preposti, fatta con criteri omogenei e prudenziali, il rovescio della medaglia si sta vedendo con accertamenti a tappeto sui contribuenti pistoiesi che hanno la necessità (o sentono il dovere) di presentare una denuncia al Catasto; l’Ufficio applica la rivalutazione singola delle rendite con una forma di giustizia sommaria fortemente sperequativa, che altera un sistema, forse portato al ribasso, ma omogeneo (per classi e zone omogenee) e solo per questo sicuramente più equo.

Il Comune sotto questo profilo deve farsi davvero interprete e sentinella delle esigenze dei propri cittadini, e non accettare supinamente una riforma dall’alto che, per sua stessa natura, sarà altrimenti utile solo a fare cassa.

VENENDO ALLA RIFORMA DEL CATASTO

Il primo dato da chiarire è la reale pressione fiscale sugli immobili. Secondo gli studi di Confedilizia nel 1980 si aveva un gettito di poco superiore a 5.100 miliardi di lire, mentre nel 1996 il gettito è stato di quasi 54.000 miliardi di lire (+ 940%, e la legge 662 del 1996 ha inoltre rivalutato le rendite catastali urbane del 5%, i redditi dominicali e agrari rispettivamente dell’80% e 70% ai fini delle imposte sui redditi). Ma nel 2013, dopo l’Ici, l’Imu e tasse varie, il gettito è stato di 40 miliardi di euro, ovvero 80mila miliardi di vecchie lire, con una crescita esponenziale!

Ciò significa che in 30 anni o poco più gli italiani proprietari di almeno un immobile, quelli del risparmio, vera colonna portante dell’economia nazionale, si sono visti spremere sul lato patrimoniale con un incremento di oltre il 1500%, mentre il valore degli immobili non è certamente cresciuto a tale ritmo, anzi.

Proprio la crisi degli ultimi 5-6 anni sta mettendo in evidenza la forzatura – sia tributaria che costituzionale – della riforma del catasto, in quanto a fronte di un vero e proprio crollo dei valori di mercato si sta continuando a far crescere a dismisura la pressione fiscale sulla proprietà, volendo legarla al concetto della rendita (da rivalutare).

COME FALASARE LA ‘CAPACITÀ CONTRIBUTIVA’

Un modo certamente facile ma non corretto di valutare la capacità contributiva (ex art. 53 della Costituzione), e non solo per il mancato aggiornamento dei dati e delle classificazioni. Immaginiamoci se, come a suo tempo previsto dal legislatore, la riforma del catasto fosse già in atto da qualche anno ed i valori immobiliari oggi fossero stati riparametrati a quelli della bolla speculativa dei primi anni del duemila: milioni di italiani si troverebbero addosso una tassazione ancor più iniqua, perché nettamente superiore alla rendita. Cioè pagherebbero su ciò che in realtà non soltanto non producono, ma nemmeno “rende” in termini di valore. Quindi, se parliamo di Catasto parliamo di rendita e di perequazione impositiva, se vogliamo tassare il valore delle cose, siamo seri, facciamo qualcos’altro, inventiamo uno strumento diverso, perché questa via è contraria ai principi costituzionali, al buonsenso ed alla speranza di risollevare questo Paese, utile solo a chi alle spalle di questo Paese vuol sopravvivere qualche altro anno.

UN EQUIVOCO DI FONDO: IL TUIR 1986

Effetto «città all’avanguardia in tutto...»
Effetto «città all’avanguardia in tutto…»

L’equivoco che lega in qualche modo la rendita al valore di mercato nasce con il Testo Unico sull’ Imposta di Registro emanato nel 1986, il quale, per limitare il contenzioso tributario che all’epoca nasceva sistematicamente per ogni atto di compravendita di un immobile e ingolfava le commissioni tributarie, prevedeva all’art. 52 che “non sono sottoposti a rettifica il valore o il corrispettivo degli immobili, iscritti in catasto con attribuzione di rendita, dichiarato in misura non inferiore, per i terreni, a settantacinque volte il reddito dominicale risultante in catasto e, per i fabbricati,  a  cento volte il reddito risultante in catasto, aggiornati con i coefficienti stabiliti per le imposte sul reddito”. È chiaramente una norma nata per una situazione di emergenza che dava una boccata di ossigeno alla giustizia tributaria ed alle casse dello Stato che incassava pochi soldi, maledetti, ma subito.

Sull’esperienza del testo unico, anche le recenti imposte (incostituzionali) sulla casa, Isi, Ici, Imu e via discorrendo, hanno utilizzato il principio del rapporto improprio tra rendita catastale e valore impositivo, un po’ per comodità ed un po’ perché non esiste altro riferimento che permette di determinare la base imponibile di recente invenzione, a conferma che il nostro impianto normativo non prevede la tassazione del valore.

Il superamento di questo equivoco, che una certa sinistra addirittura saluta come superamento di una iniquità, si realizza in realtà tornando all’origine del catasto, nato con l’unità d’Italia, e avviato con la legge per la “perequazione dell’imposta fondiaria” del 1886; tuttavia il Catasto Urbano di cui stiamo parlando viene istituito concretamente con regio decreto del 1939, e con la precipua finalità di “accertare le proprietà immobiliari urbane e determinarne la rendita”. Questa è esattamente definita come “la rendita lorda media ordinaria ritraibile, previa detrazione delle spese per riparazione, manutenzione e di ogni altra spesa o perdita eventuale”.

TORNANDO ALLA RENDITA E NON AL VALORE

Quindi, due considerazioni sorgono immediate: la prima è che con l’agevolazione fiscale prevista per le ristrutturazioni edilizie non si è inventato niente, qualcuno ci aveva già pensato in maniera scientifica 70 anni prima. La seconda ed inerente l’argomento d’attualità: il Catasto ha la finalità di individuare la rendita degli immobili e non il loro valore, peraltro in perfetta sintonia con la Costituzione repubblicana che verrà 10 anni più tardi. Per tali semplici ragioni le rendite sono state storicamente calcolate in modo prudenziale, per fare sì che il cittadino subisca un’imposizione fiscale sicuramente non superiore a quella che proporzionalmente risulta dal reddito effettivo (prodotto) dagli immobili. Il valore non c’entra niente, per due ragioni; sia perché la tassazione come detto colpiva il reddito, sia per l’estrema variabilità nel tempo e nello spazio a cui è soggetto il valore.

E su questo argomento abbiamo avuto una lezione severa proprio dal 2008 ad oggi: questo ipotetico Catasto a valore, su cosa lo basiamo su quelli del 2008 o quelli del 2014? Il rapporto è circa 1:2!

[*] – Consigliere comunale Pdl, ospite

Print Friendly, PDF & Email