Una spettacolare gola calcarea che si sviluppa dalle pendici dell’Alpe delle Tre Potenze e del Rondinaio. La, forse, prima testimonianza scritta di un “trekking” di inizio ‘900. Un fiume, bolgia di macigni. Passaggi strettissimi con pareti strapiombanti dove guardare in su dà le vertigini come scrutare un abisso dall’alto. Qui il cielo si fa piccolo e diventa un sottile rigagnolo azzurro
di MARCO FERRARI
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TEREGLIO. L’Orrido di Botri è una spettacolare gola calcarea che si sviluppa dalle pendici dell’Alpe delle Tre Potenze e del Rondinaio, sotto il crinale dell’Appennino tosco-emiliano, fino a Ponte a Gaio nel Comune di Bagni di Lucca, unico punto di accesso alla gola.
Ha pareti ripidissime che raggiungo anche i 200 metri di altezza.
Fa parte della riserva istituita nel 1971che comprende anche il Balzo Nero. Per il grande afflusso di persone e il pregio del luogo da preservare, le visite sono contingentate e permesse solo da giugno a settembre.
Ma non è sempre stato così ed un secolo fa era la stessa natura a scoraggiare i visitatori.
Una, forse la prima, testimonianza scritta di un “trekking” svolta nell’impervio e affascinante luogo, viva, fresca e ancora attuale, è stata lasciata da Luigi Ugolini (Firenze, 25 giugno 1891 – Firenze, 22 giugno 1980), scrittore, giornalista e cacciatore fiorentino, che qui si recò nel ottobre del 1928.
La cronaca dell’escursione-avventura, è riportata sulle pagine della rivista mensile Gran Sport nella rubrica “Bellezze d’Italia poco note” dell’aprile del 1929.
Buona lettura.
Marco Ferrari
[marcoferrari@linealibera.it]
L’ORRIDO DI BOTRI
Risaliamo velocemente la verde valle del Serchio e nelle prime ore del mattino la nostra macchina romba per la salita semi-mulattiera che conduce a Tereglio.
È Tereglio un villaggetto accigliato, chiuso fra i castagni sui primi monti della Garfagnana, sovrastante una valle angusta che si spinge fin sotto l’Alpe delle Tre Potenze.
È qui una natura selvaggia e primitiva, e ci si può illudere, lasciando briglia sciolta alla fantasia, di essere in un angolo delle Montagne Rocciose o alle falde dei Pirenei. Scrosci di acque correnti, un rombar di cascate e il soffocato frastuono del vento nelle chiome dei castagni.
TEREGLIO
Paesi che non si vedono che al giungervi: casette di pietra, basse, porte massiccia, quadrate, soglie da fortezza, archiviavi tombali. Entriamo in Tereglio. Quiete dappertutto: una pulizia che sorprende, viuzze deserte, porte e finestre sprangate. Si dura fatica a trovare una faccia umana a cui chiedere di uno spaccio di commestibili.
La bottega. È un porta di casa qualunque; dentro sembra una chiesa. Pavimento a quadroni pulitissimo; un banco di noce lustro ch’è una meraviglia; le poche merci ordinate con savia disposizione. La venditrice è semplice, oh! Semplice di una semplicità montanina: le parole strettamente necessarie; tacite meraviglie, osservazioni da primitivi… Un pane, un po’ di salame casalingo, un pezzo di formaggio, e in marcia.
LA VIA BACIOCCA
Per arrivare a Ponte a Gaio ci sono cinque o sei chilometri di Via Baciocca. Già, la Via Baciocca! Una bella brutta strada fatta costruire da Elisa Baciocchi con un monte di belle intenzioni, ma che è rimasta là, precisamente come l’inferno, lastricata di… buone intenzioni.
È una strada che se l’avessero gli americani ne farebbero una via turistica di primo ordine, ma noi… come facciamo noi a pensare a tutte, alle troppe cose belle che abbiamo in Italia?
La Via Baciocca dunque è tutta taglia nel macigno a mezza costa del monte e si snoda dalla Lucchesia al Modenese sopra un paese selvaggio ed incantevole; a valle rumoreggia la Fegana; di ogni intorno monti severi e deserti ammantati di castagni. Ultimo paese dominante la vallata è Montefegatesi, la patria classica dei classici figurini di Lucca. E avanti di buon passo per l’interminabile Via Baciocca! L’occhio di lassù spazia la vallata severa chiusa nel fondo dalle cuspidi delle Tre Potenze. Frane pericolose e macigni solitari che qua e là punteggiano la mulattiera, ci danno forse la spiegazione dell’abbandono in cui stata lasciata l’ardita via appena abbozzata nella roccia: qual forza umana può reggere il masso friabile che qua e là precipita dai ripidissimi fianchi?
Ma cos’è quel punto nero che volteggia nel cielo e si accosta e ingrandisce e libra in tarde ruote nel limpidissimo azzurro? Gli Zeiss si puntano: il trasvolatore è rintracciato, avvicinato, osservato, identificato. l’aquila! Ma si! L’aquila Reale! La dominatrice degli spazi che sulle Tre Potenze fa il nido. È altissima! Sovrasta la montagna di forse mille metri, ma la scorgiamo nitidamente e riconosciamo la caratteristica sagoma delle ali possenti che si librano quasi senza battito roteando con calma solenne nell’infinito. Poi il suo giro si allarga, si allontana, volteggia, sparisce dietro la vetta.
Pochi passi più innanzi ed ecco un’altra sorpresa ornitologica: un volo di rondini si rincorre sopra di noi festosamente: non è la rondine comune, che diamine! Siamo del resto a metà ottobre e rondini non ce ne sono più, no, la riconosciamo al colore cenerino è la rondine montana.; è rara assai rara nel continente e sarebbe fortunata occasione di procurarsene un esemplare. Ma sono alte, molto alte e noi non abbiano la pazienze ne il tempo di attendere; nomine uno un fuoco di fila, finché ho la fortuna di ucciderne una sola; è in ottime condizioni e ne verrà una buona preparazione… E allunghiamo il passo per riprendere il tempo perduto.
PONTE A GAIO
Per questa deliziosa mulattiera si giunge verso le dieci a Ponte a Gaio.
Un Casolare? No! Due o tre mucchi di pietra a cuspide che chiameremo case, asilo di pastori di capre; due o tre capanne di legno per le greggi; una teleferica che scende dai monti per il trasporto del legname.
Ed è tutto.
In fondo a questa valle deserta fra torrenti, dirupi e neve nell’inverno, vivono lungi da ogni consorzio umano due o tre famiglie di pastori. A Ponte a Gaio s’apre la gola dell’«Orrido».
L’INGRESSO
All’ingresso l’«Orrido» è una valle angustissima, o meglio un colpo di scure fra due monti, ove al fondo gorgoglia un torrente. Questo torrente è l’unica via d’accesso all’«Orrido»: fiume, bolgia di macigni e strada. Non v’è da scegliere, bisogna penetrare di lì, da masso a masso, da spaccatura a spaccatura e quando non si passa, giù risolutamente nell’acqua. Siamo alla metà di ottobre e quell’acqua gelata della montagna v’assicuro che morde!
Procediamo cauti con gli occhi in alto alle pendici che nel primo tratto sono ancora sufficientemente inclinate; lassù sulle nostre teste, a due, tre, quattrocento metri, brucano tra massi e cespugli, branchi sparsi di capre. È il pericolo più grande per chi vi si trova nel fondo. Sassi di rispettabile mole rovinano dai fianchi ripidissimi sotto le zampe di quei fissipedi, proiettili formidabili il più piccoli dei quali basta per accoppare il disgraziato che è in fondo senza via di scampo. Ad ogni passo ci imbattiamo in macigni, alcuni dei quali di diecine di tonnellate, rovinati giù di recente dalle scarpate che ci fiancheggiano. Occorre stare all’erta!
LA PRIMA STRETTA, CON DANTE, POË E VICTOR-HUGO
Dopo un mezzo chilometro la valle bruscamente si restringe; l’inclinato diviene verticale, talora a strapiombo, in alcuni punti le due facciate distano fra loro meno di un metro: la valle diviene ad un tratto un tenebroso corridoio: è la prima stretta. E ci troviamo d’improvviso in pieno ambiente Dantesco. Io non so se il Poeta, cui pare fosse ben nota questa regione, avrà visitato l’Orrido, richiamato dalla sua selvaggia bellezza, ma anche se il luogo mai è stato visitato da Lui è veramente degno di essere eternato da un genio.
Si penetra fra due pareti rigorosamente verticali; guardare in su dà le vertigini come scrutare un abisso dall’alto; il cielo è un sottile rigagnolo azzurro e il pieno sole di mezzogiorno non è laggiù che un livido crepuscolo. Due o trecento metri di macigno ai fronteggiano orridi e scabri, in fondo non v’è posto che per l’acqua: bisogna passare la stretta a guado fino al ginocchio.
Lo spettacolo sorpassa quello che l’immaginazione suole foggiare. Mio figlio Ugolino che pure è un ragazzo svelto, avvezzo all’escursione ed alla caccia, non facilmente impressionabile, si stringe a me, visibilmente pallido. Mi vieti fatto di pensare ad una notte di tempesta in fondo a questo cupo sentiero. Poë, e Victor-Hugo soltanto potrebbero essere gli interpreti di quell’orrida tregenda degli elementi.
LA GENESI
Il mio compagno di gita, l’ottimo amico Dott. Caterini di Pisa, profondo geologo, oltreché esimio sacerdote di S. Uberto, considera con la freddezza dello scienziato il pauroso fenomeno e ne ricostruisce la genesi, leggendola sulle pagine scolpite dagli elementi, sugli strati millenari del calcare e dell’arenaria.
Le acque provenienti dalle pendici delle Tre Potenze hanno percorso per un certo tratto un terreno abbastanza erodibile e poi hanno trovato un affioramento di rocce compattissime e assai meno logorabili e così con ultra millenaria azione di cascate, di salti e di vortici hanno finito per scavare il canalone pauroso.
LA SECONDA STROZZATURA
E avanti ancora. La prima stretta è superata: si apre una valle augusta come al principio, quindi la seconda strozzatura, più orrida della prima, con le pareti più elevate, più tortuosa, più oscura. I passaggi si fanno di mano in mano più difficili; in alcuni punti la pietra levigata dalle acque e coperta di musco è così lubrica che è un problema il superare un dislivello; occorre salire uno alla volta, trasbordare il nostro armamento: fucili, macchina fotografica, binocoli, provviste e tirarci su a vicenda. Si passa la seconda stretta e ancora avanti. Un ostacolo materiale ci arresta. Una piscina d’acqua limpidissima e fredda ci sbarra la via. Non vi sono passaggi; impossibile proseguire.
DIFFICOLTÀ SEMPRE PIÙ GRANDI
Tentiamo di girare l’ostacolo arrampicandoci sui fianchi della valle: fatica inutile e pericolosa. Il pietrisco friabile cede sotto il nostro piede mettendo a repentaglio ogni nostro passo, con la minaccia di farci sdrucciolare fino al l’incassatura verticale del torrente, che ci costerebbe un salto poco piacevole di sei o sette metri. Il mio ragazzo è impressionato e rifiuta di proseguire. Affrontiamo risolutamente la piscina e ci spingiamo nel-l’acqua freddissima che ci arriva alla vita. Passiamo gli utensili, le armi e…. Ugolino: il passo difficile è valicato e il cammino prosegue.
Ma le difficoltà si fanno sempre più grandi; il letto del torrente sale sensibilmente: i passaggi difficili si moltiplicano: ogni scalata ci mette in pericolo di ruzzolare in qualche bacino d’acqua limpidissima. è vero, ma di temperatura poco gradevole; ma siamo decisi a proseguire fino ai limiti del possibile. Un merlo acquaiolo (Cinclus aquaticus) ci passa quasi tra le gambe volando basso come una freccia: non pensiamo neppure e tirargli, impacciati come siamo e coi fucili scarichi per giunta, per timore delle cadute; così pure con vivo rammarico di ornitologi dobbiamo lasciare partire indisturbata una monachella (Saxicola) che, sebbene da lungi, ci pare di specie assai rara.
L’OSTACOLO INSUPERABILE
Finalmente il temuto ostacolo, ostacolo insuperabile, il vero a «non plus ultra»a, ci si para dinanzi; ci troviamo in una specie di cripta incavata a mo’ di nicchia da due lati e chiusa dal terzo da una spumeggiante cascata di quattro metri di altezza; nessuna possibilità di scalata privi come siamo di corde e di utensili.
Facendo di necessità virtù retrocediamo, accampandoci… temporaneamente, su di un lastrone di pietra passabilmente asciutto: accendiamo un bel fuoco con arbusti e legna morta e diamo l’assalto alle frugali provvigioni da bocca. Ma occorre far presto, il tempo già incerto comincia a regalarci degli spruzzi d’acqua, e fra le altre cose ci rammenta che un altro pericolo da non disprezzarsi è quello di una piena improvvisa del torrente in caso di un violento acquazzone, né ci sorride troppo l’idea di passare una notte assediati su di un masso dalle acque impetuose dell’«Orrido»: comandiamo senz’altro la ritirata.
LA RITIRATA
Ripassiamo le strette sotto il cielo plumbeo e l’acquerugiola fitta; regna nel corridoio una semioscurità che stringe il cuore e fa desiderare l’aria libera e la valle spaziosa; solitari arbusti aggrappati a diverse altezze nelle parei tenebrose si agitano cupamente come braccia scheletriche imprecanti e son forse l’immagine di quelli che al Divino parlarono:
Uomini fummo ed or siam fatti sterpi.
L’ultima stretta infine è superata e poco dopo le miserabili catapecchie di Ponte a Gaio ci riuniscono al consorzio degli uomini: la via Baciocca ci sembra un boulevard, ed il cielo plumbeo, ma infinito ci dà un ampio, consolante respiro: si cammina rapidi sotto la pioggia e si fanno già dei progetti per l’anno venturo; chè l’abisso non si è tutto esplorato: sappiamo che continua ancora e, pare, più orrido e più bello di quello che abbiamo per-corso; la carta topografica ci indica una forte e prolungata fenditura designata col nome di «Solco grande». «Solco grande» dunque ad un altr’anno!
Luigi Ugolini
Ottobre ‘928