PISTOIA. Dopo il Teatro de Los Sentidos di Vargas e il circo Obludarium dei fratelli Forman, il Funaro ha deciso di chiudere un primo cerchio surreale con la rappresentazione di The Valley of Astonishment, esperimento teatrale di Peter Brook e trasportato in scena da cinque straordinari visionari: gli attori Kathryn Hunter, Marcello Magni e Jared McNeill e i musicisti, non certo esenti da responsabilità, Raphaël Chambouvet e Toshi Tsuchitori, con un creatore di luci e traduzione simultanea, Philippe Vialatte, degno elemento di un velocissimo e irrisolto percorso a ritroso su più piani paralleli.
Ieri, la prima; stasera, la seconda. Noi ci siamo potuti gustare la terza, che in realtà è stata un’anteprima, mercoledì pomeriggio, o meglio, l’ultima prova generale in vista del debutto. Con pochi spettatori, quasi tutti più o meno direttamente coinvolti alla rappresentazione o allo stabile e qualche attore (Massimo Grigò), un saggio per saggisti che non ha tradito le più banali aspettative emotive. Perché la follia ha un fascino tridimensionale prima che essere materia di studi psichiatrici e i folli, prima di venir catapultati nel mondo della correzione, dell’allineamento o dell’intrattenimento, vorrebbero dare un senso, un peso e un colore alla propria stravaganza, casomai mettendola in comunione con la ricerca.
Si recita in inglese, con sfumature transalpine e una pietra leggendaria in italiano, la Divina Commedia. Sullo sfondo umorale, una straordinaria potenzialità mnemonica, attivata da riferimenti quotidiani, quasi sempre a colori e del tutto ingiustificabili, se non dalle menti che ne abusano; nel mezzo, lo stupore che diventa studio, psicanalisi, con una continua rotazione di personaggi, che entrano e escono dal fuoco dei riflettori senza mai uscire di scena, indossando il camice bianco, per diventare medico o mettendosi, semplicemente, la mano destra in tasca e trasformarsi in un illusionista mago delle carte.
Si parte dell’autocertificazione, semplice, commovente della surrealtà e ci si immerge tra i meandri della correttezza nel tentativo di classificarla, riducendola così ad uno stadio, un settore, una variante, senza considerare che dietro ogni magnificenza c’è una mente che la vive, la gode e la soffre. E loro, i protagonisti, invitano il pubblico a non subire la loro straordinarietà, ma a provare a sondarla, abbandonando le certezze della normalità e tuffandosi nelle loro stranezze, lasciando trasportare da tutti quegli elementi che li hanno resi unici, prima che diversi.
Il pubblico è scarso, la sera della prova generale, ma per i cinque saltimbanchi non fa alcuna differenza; certo, è una prova generale, vale come preludio e si sa, la scaramanzia, nel mondo dello spettacolo regna sovrana. Ma Kathryn Hunter piange davvero: la lavagna sulla quale ha scritto i numeri da ricordare, quelli che le sono costati il licenziamento come reporter dal giornale e l’assunzione come pietra preziosa dello show, non si cancella; hai voglia, a bruciarli, quei numeri scritti sulla carta. Restano, indelebili, immortali e con quei numeri e con quella memoria la pazza ha solo voglia di convivere pacificamente, senza dare spettacolo.
Marcello Magni non può varcare la soglia di un casinò: se lo riconoscono lo buttano fuori a calci nel sedere, anche se ha una mano in tasca. Anzi, soprattutto. Jared McNeill è medico e paziente: con il camice è giovane e ha voglia di scalare la china della professione; come soggetto psichiatrico dipinge con una scopa; le fonti di ispirazione sono i ricordi, che gli altri non riescono a vedere, ma nemmeno ad immaginare.