BERGONZONI, IL SOLITO FIUME IN PIENA

Alessandro Bergonzoni
Alessandro Bergonzoni

AGLIANA. Ha perso parecchi chili, Alessandro Bergonzoni, ma non il vizio, anzi, i vizi. Uno di quelli che ci ha particolarmente stupito è la longevità con la quale continua ad arrampicarsi sugli specchi delle parole e senza magìe, le trasforma, disillabandole, scorporandole, affidando loro altri valori e significati, antitetici a quelli originali, uno sberleffo alla purezza della lingua e una provocazione ai dotti che ne abusano.

Ieri sera era al Moderno di Agliana, per l’ultima anteprima prima del debutto ufficiale che avverrà la prossima settimana nella patria di Ligabue, a Correggio. Lo spettacolo, senza titolo, se non un sin troppo evasivo Nuova Produzione, è un’altra macchina da guerra grammaticale, fonetica e sintattica dell’improvvisatore bolognese, stavolta partendo da un principio che è un invito a percorrere al contrario il sentiero dell’esistenza, con i bambini che aspettano impazienti che nascano i padri e le madri all’asilo, che anche se nessuno andrà a prenderle, torneranno da sole, che diamine, son mamme!

Ma oltre al solito fiume di immagini sovrapposte, come un computer collegato con più sistemi che pare non si interfaccino, ma in realtà sono guidati dal solito dominio e interagiscono sul medesimo server, nel suo nuovo spettacolo Alessandro Bergonzoni ci va giù duro con l’approssimazione, i luoghi comuni, le novelle che guidano l’umanità verso il baratro. Contro la schizofrenia degli abili che non riescono ad interagire con i diversamente abili, contro il massacro del silenzio omertoso che ha ucciso Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa, contro tutta quell’ipocrisia con la quale colmare le distanze tra l’Occidente e l’Africa: colmare, appunto, con il mare.

Ma senza perdere di vista i suoi nonsenso, una sequela di credenti e non credenti, miscredenti, vedenti e non visti, veduti, passanti, tornanti, quelli che si appostano a ridosso delle curve, impiantati su una storia che parte da una nebulosa futuristica (così si apre il sipario) e si snocciola lungo una bisettrice che lo vede con le mani all’interno di tre incubatrici, che sono i suoi tre leoni che doma in più lingue, tratto terminale di un cane sudamericano che viene investito ogni dieci minuti ed un gatto non distante al quale, ogni tre giorni, incendiano la coda.

Racconta di esserci già stato, in quel teatro, ma bluffa, l’onemanshow: ricorda che si trovava in una foresta, o in un bosco, dove c’erano una moltitudine di uccelli che sibilavano versi loquaci: l’impiccione viaggiatore, che faceva un sacco di domande, l’uccello-sosta, che urlava all’automobilista vieni, vieni, vieni e l’antitetanica; dove le lucciole non volano, ma vengono condotte nei rovi da un pullman che passa a prenderle al calare della sera, con un intreccio temporale e aritmetico sulla diversa intensità degli anni degli animali, troppo giovani per capire, troppo vecchi per sopravvivere.

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