PISTOIA. Il suo piatto forte è la bossanova; quando si veste di carioca, Stefano Bollani diventa irresistibile. Ma anche interpretando qualsiasi altra cosa, come lui, in giro, non c’è nessuno.
La conferma, l’ennesima, la si è avuta ieri sera, quando sul palcoscenico del teatro Manzoni, dove si è consumato il quarto appuntamento della Stagione Sinfonica Promusica, promossa dalla Fondazione Caript, è salito lui: scarpe bianco e marrone, stile borsalino, jeans senza toppe e camicia, molto vintage. Un paio d’ore prima invece, nell’incontro – gratuito – con il pubblico nel Saloncino del Manzoni, Stefano Bollani si è presentato con adidas scure, tuta di ginnastica grigia e camicia a quadratoni, sfondo rosso, stile boscaiolo.
Partiamo di proposito dall’abbigliamento perché è forse la sola differenza tra Stefano Bolani-conferenza stampa e Stefano Bollani-concerto: perché è un guascone, un giocoliere, un trapezista, un clown. Un musicista straordinario, che adora, prima di ogni altra cosa, non prendersi sul serio. Non a caso, l’anno scorso, è uscito Sheik Yer Zappa, un tributo all’incommensurabile Frank Zappa registrato, dal vivo, tre anni prima, definito, da lui stesso, un rocker che prendeva in giro con sarcasmo il mondo del quale faceva parte, canzonandone gli stereotipi e agendo in modo diametralmente opposto a quello dei suoi colleghi.
Anche lui è così: ironico, dissacrante, sarcastico, irritato dagli stereotipi, alla ricerca, spasmodica, delle novità; perché la verità, siamo onesti, non esiste. E allora inizia il concerto, con il primo brano dedicato ai suoi dieci anni trascorsi al Cherubini, di Firenze: silenzio assoluto, con il musicista che trascorre due minuti ad alzare e abbassare il seggiolino. Risate e applausi, quelle che accompagneranno tutto lo spettacolo. Poi però, inizia davvero, il concerto, con un Luigi Tenco easy. Dopo si passa ad un classico del jazz, apripista consumato per il primo brano verdeoro.
“Ce ne sono molte di canzoni carioca che meritano una rivisitazione, ora”, ha detto dallo sgabello davanti allo strumento al pubblico. “Ci si fida” è stato l’urlo suggeritore di uno in platea. Giusto, ci si fida, uno dei motivi meno inflazionati del repertorio bossanovistico e il primo tributo al suo Brasile, quello diviso e condiviso con Jobim, Chico Buarque de Hollanda, Hamilton de Hollanda, ma anche Barbara Casini, Nico Gori, Enrico Rava, Bobo Rondelli, è stato questo.
La sala è attonita. La musica che esce dalla coda è qualcosa di meravigliosamente imprecisabile, una contaminazione sull’altra, come se a suonare fossero in tanti: un concerto meraviglioso, uno spettacolo, nel quale si ride a crepapelle perché Stefano Bollani, prima di ogni altra cosa, preferisce evitare di essere al centro dell’attenzione.
“Improvvisare – ha risposto ad un giovane fan nella conferenza del tardo pomeriggio – è come costruirsi un ponte di legno su uno strapiombo, poggiando ogni volta i piedi sull’asse di legno appena piallata e imbullonata. Non si rischia di cadere, ma si ha paura che succeda e mi è capitato un sacco di volte, improvvisando, di tirare fuori cose che non mi sono piaciute: sono quelli i momenti nei quali ho avuto paura di cadere, ma non è mai successo”.
Il concerto va avanti. È il momento di un altro grande inaspettato tributo, ad Adriano Celentano. Il brano è uno dei più poetici del molleggiato: con Bollani, quell’indimenticabile canzone si trasforma, per magia, in altre tre. Le mani continuano a scorrere sui tasti: sul pavimento del palco, qualcuno ha disposto della cera, per fortuna, perché lui, seduto tranquillo a suonare, non ci sa stare. Ha bisogno di muoversi continuamente, di sospingere il seggiolino avanti e indietro, soprattutto per oscillare nervosamente la gamba destra; con il piede sinistro batte il tempo, in modo smelodico, come se volesse disturbarsi.
“Che senso ha – risponde contrariato, sempre nel pomeriggio conferenziere, ad un altro spettatore – parlare della musica che non mi piace? È come se vi sconsigliassi di andare a vedere un film, perché brutto, o vi suggerissi di non leggere un libro perché noioso. Certo, qualcosa la ritengo statica, senza senso, come il reggae, ad esempio. È vera la storiellina dei due jamaicani che dopo essersi accorti di aver finito tutta l’erba che avevano, si chiedono chi sia mai stato a mettere quella musica di merda in sottofondo! Preferisco parlare delle cose che mi piacciono, che sono molte, anche se la maggior parte datate. C’è un dj scandinavo molto interessante, ad esempio”.
Sul palco, dopo una massiccia dose di meraviglie, arriva Nico Gori, un vecchio amico (tre anni più giovane) di Bollani, anche lui diplomatosi al Conservatorio Cherubini di Firenze. Tra le mani ha lo strumento con il quale fa le cose più bizzarre: il clarino. Fa parte del quintetto base degli amici inseparabili di Bollani, Nico Gori e ieri sera non si è sottratto da due piccole gemme, offerte più al collega che al pubblico.
“No, non mi alleno molto – confida ad un altro presente alla conferenza pomeridiana – , anche perché il pianoforte non è uno strumento facilmente trasportabile come la chitarra, il violino, la tromba. O facile come l’organetto diatonico”. Sta scherzando Stefano Bollani perché in sala, durante l’incontro, si è accorto che c’è un altro vecchio amico, Riccardo Tesi, che proprio con quello strumento si è imposto all’attenzione nazionale in Creuza de ma, di Fabrizio De André. A Pistoia, di amici colleghi, ne ha più d’uno, naturalmente: ricorda con affetto Nick Becattini, con il quale ha suonato e Michele Beneforti, altro pistoiese doc, con il quale suonerà (lo auguriamo ad entrambi), conosciuto proprio di questi tempi negli Stati Uniti.
Altri due brani, conditi da un’improvvisa paresi alla mano destra che gli dimezza le potenzialità, scenetta degna delle migliori balere e si volge al termine. Prima però c’è un omaggio, alcolico e dissacratorio, ad uno che non ha avuto la fortuna che avrebbe meritato: si tratta di Duccio, un improbabile fiorentino vissuto per molti anni a Pistoia, un musicista e paroliere che credeva nelle proprie fedeli traduzioni dei testi più impegnati. Nessuna casa discografica ne volle sapere di quell’infingardo cantastorie, ma Bollani si è preoccupato di ricordarlo, riproponendo alcune sue fantastiche surreali tradizioni.
Siamo ai saluti. Stefano Bollani si alza in piedi e saluta, ringraziando il pubblico, entusiasta e incredulo, per aver assistito, contemporaneamente e al prezzo di un solo concerto, a tanti spettacoli, almeno tre.
“Sì, anche a me, alcuni giorni dopo la sua morte, mi è scesa qualche lacrima – ci risponde, sempre nel Saloncino, a proposito della solitudine creata dall’improvvisa scomparsa di Pino Daniele – , ma non lo conoscevo affatto bene. Ci eravamo incontrati una volta, di sfuggita, venti anni fa e passa. Però credo che paradossalmente sia più presente ora che un anno fa, Pino Daniele. Ero a Napoli alcuni giorni dopo la sua morte: in città si sentivano solo le sue canzoni”.
Il bis di Bollani contempla un mix di una decina di motivi non eseguiti e che il pubblico gradirebbe ascoltare. In mano ha carta e penna e prende appunti: Agua de marso è la più gettonata, ma anche Jig Robot. Qualche nostalgico urla Bella ciao; una ragazza vuole sentire Tootsie, noi gradiremmo risentire ci si fida. Si siede nuovamente sullo sgabello e riparte un’altra volta allo scoperta di nuovi confini artistici, quelli che coniugano il sacro e il profano, il pop e il rock, il jazz e il blues, l’acido e il funky. Le risate coprono gli applausi: serpeggia il timore che il concerto stia finendo veramente. Lui, intanto, se n’è andato.
La gente continua ad applaudire però. Non basta. Stefano Bollani si ripresenta. Si siede e con quel sorriso catartico intona, con pochissime divagazioni, Je so pazzo; subito dopo Nun me scuccià. Menomale, senza l’omaggio a Pino Daniele, ci saremmo sentiti un po’ più soli.