
PISTOIA. Se ho ben capito, preso atto che qualcosa ancora qui non va, si è aperta una riflessione su quale possa essere l’organizzazione del Partito Democratico per il futuro. Lancio allora il mio messaggio nella bottiglia.
Nel partito che vorrei esistono i congressi per stabilire una linea politica. Che, una volta definita, impegna tutti. Nel partito che vorrei non esistono maggioranze e minoranze strutturate, per sempre e su qualsiasi cosa.
Prima e dopo i congressi, infatti, c’è – dovrebbe esserci – una identità, una cultura, una concezione del mondo, un’idea di società che può essere, come le costituzioni, scritta o non scritta ma resta dopotutto il cemento ideale che lega tante persone e le spinge a impegnarsi, con o senza iscrizione, in un progetto di cambiamento rispetto al quale tutti devono sentirsi a casa propria o, se si preferisce, “in maggioranza”. I congressi servono a definire il tragitto per attuare quel progetto in un arco di tempo determinato.
Invece, da anni, ben da prima del Pd, è prevalsa l’idea che ai congressi si misurino più le personalità dei candidati alla segreteria, e meno le idee. E infatti ogni candidato porta con sé un programma tutto suo che di solito prende il nome di mozione ma altro non è che un pacchetto chiuso, prendere o lasciare, in cui le alternative sui singoli temi sfumano spesso in generiche petizioni di principio, mentre in altri casi – si veda il tema dei diritti civili – precipitano in compromessi deludenti e antistorici per compattare il fronte (plurale) dei sostenitori.
Succede che questo meccanismo innesca le tifoserie organizzate che poi si strutturano in correnti, in un lunghe filiere di potere, avide e spietate. E succede che i candidati a rappresentare il partito nelle istituzioni vengono scelti in base alla fedeltà a questa o quella corrente e non – come dovrebbe essere – in base alla indipendenza di pensiero, alla qualità personale, alla esperienza maturata e alla autorevolezza che riescono ad esprimere.
Nel partito che vorrei i congressi si svolgono per argomenti: in merito ad ogni singola questione di maggiore importanza si pronunciano gli iscritti al partito o all’albo degli elettori, votando una delle tesi in campo. Qualche esempio, consapevolmente fuori sincrono rispetto a scelte già prese. Diritti delle coppie omosessuali: matrimonio o unioni civili? Riforma del Senato: camera delle autonomie o delle garanzie? Elezione diretta o indiretta? Tutela per il licenziamento illegittimo: indennizzo economico o riassunzione/reintegrazione? Contratto a tempo determinato, obbligo per il datore di giustificare la temporaneità dell’impiego: sì o no? Dirigenti della pubblica amministrazione: a termine o senza termine?
Nel partito che vorrei, non prima ma alla fine del congresso, gli iscritti (al partito o all’albo degli elettori) eleggono il segretario fra diversi candidati, se ve ne siano. Il confronto, a quel punto, si articola sulle loro diverse capacità e su altre questioni non affrontate nella fase precedente ma partendo dal rispetto delle tesi congressuali.
Nel partito che vorrei, di quando in quando, si utilizza lo strumento del referendum degli iscritti per definire orientamenti nuovi in merito a temi non esaminati in sede congressuale o qualora emergano fatti nuovi che modifichino la situazione di partenza.
Nel partito che vorrei i congressi locali sono sganciati da quelli dei livelli superiori perché è irragionevole mettere una camicia di forza addosso a realtà territoriali che hanno loro precise peculiarità e problemi da risolvere.
Ecco, penso che così il Pd avrebbe molti più partecipanti e sarebbe assai più unito. E l’iscritto non sarebbe più spettatore o comparsa ma interprete di un sistema democratico fondato sulla cittadinanza attiva. Non sarebbe più – tristemente – un nome e un numero da inserire in un elenco di firmatari o sostenitori di questo o quel candidato ma una persona che dice dei sì e dei no in base a quel che pensa.
Tutto ciò non significa rinunciare alle primarie per scegliere le persone ma prepararne il terreno in modo che non degenerino in una guerra per bande. E far sì che la partecipazione alla vita del partito non si fondi sulla passione triste dettata dallo schema amico/nemico ma torni ad essere un’attività fatta col gusto del confronto, senza barriere precostituite e – perché no? – con la gioia di concorrere insieme ad altri a qualcosa di importante.
[*] – Capogruppo Pd in Consiglio Comunale, ospite