ANCHE I MOSTRI SACRI SBAGLIANO

Il cast di Dipartita finale
Il cast di Dipartita finale

PISTOIA. Non ci permetteremo mai di mettere in dubbio la volontà, scenica e morale, di un autore, comprese quelle di Franco Branciaroli, scrittore, regista e attore di Dipartita finale, lo spettacolo che sarà replicato oggi, 29 marzo, alle 16.

Così come non ci genufletteremo mai alla logica dello spettacolo, soprattutto quando strizza l’occhio al surrealismo, come ha fatto ieri il quadrumvirato, sontuoso, del Manzoni, con una formazione da urlo che alla fine, però, è rimasta con le note strozzate in gola.

Invidiabile la forma di Gianrico Tedeschi, che alla soglia dei 95 anni ha trascorso quasi tutto il tempo della rappresentazione ad inginocchiarsi per fare da interprete ai silenzi di Supino, l’oracolo della commedia, che suggerisce l’immortalità provando ad andare oltre le poche scartoffie che i tre clochard sono riusciti a conservare nella loro vita indefinita e che li ha condotti nella baracca ultima, quella che aspetta di venir demolita affinché al suo posto nasca una pista ciclabile.

Un po’ irritante lo slang goliardo-pistoiese del nostrano Ugo Pagliai, che si scopre, alla tenera età intorno agli ottanta, uno screanzato, irriverente e disilluso vecchietto irretito dal non riuscire a vincere il sonno e ancor più imbestialito dalla propria claudicante memoria, quella che non gli consente di ricordare ormai più nulla.

C’è la morte che arriva, però, con la voce di Totò, ma che invece di incutere timore, sprigiona rabbia, tanto che il vate decide di prenderla a mazzate fino a tramortirla obbligandola addirittura a sdraiarsi sul letto aspettando la fine della fine.

Un toscano, un milanese, un napoletano e un romano che si ritrovano dentro una commedia brechtiana recitata, però, nella saletta delle riunioni della parrocchia di Don Bosco, sul limitare di Cinecittà alle propaggini dell’Amaro. Perché a teatro, per fortuna, non sono i nomi a far scintillare un cartellone, ma le idee, i contenuti e le forme e non può bastare lo snocciolare una formazione ricca di stelle di luce propria come Gianrico Tedeschi, Ugo Pagliai, Franco Branciaroli e Massimo Popolizio a garantire lo spettacolo.

Questa scommessa di supremazia fra la vita e la morte, la scienza e la religione, resta una nota scritta, che si può ritrovare nelle presentazioni della commedia, quando gli uffici stampa dei teatri dove i quattro andranno a recitare inoltreranno ai mezzi di informazione i contenuti della rappresentazione.

Che abbiamo visto con religiosa attenzione e una massiccia dose di buone aspettative, dato il carnet. Ma la totale slegatura tra i vari personaggi e la letale assenza di groove, latitanza affievolita dalla sordida bontà del pubblico, che ha sghignazzato ad ogni parolaccia, salvo poi riprendere a dormire saporitamente, hanno fatto sì che lo spettacolo finisse per essere una prova di stile, un esercizio di longevità, un’elucubrazione alle rispettive carriere, dimenticando il motivo del sipario aperto e poi chiuso.

Questi quattro indiscussi e applauditi maestri del teatro avrebbero fatto bene ad avere, una volta messa in piedi questa Dipartita finale, l’onestà intellettuale di riconoscere di non aver affatto colto nel segno e proprio nel nome delle loro fulgide carriere, un pubblico attento e intransigente, non avrebbe potuto in alcun modo perdonargliela.

Ieri pomeriggio (28 marzo), alle 17:30, nel Saloncino del Manzoni, il gradevole rituale appuntamento del pubblico curioso e famelico con la compagnia, dietro la saggia moderazione di Matteo Brighenti, collega critico teatrale. Sapranno come farsi perdonare, ci auguriamo, i quattro mattatori, nell’augurio che non tentino di incolparci di scarsa duttilità per giustificare il loro accartocciamento.

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