“CIRQUE ELOIZE”, UNA SFACCIATA COMBRICCOLA DI FUORICLASSE

I quindici del Cirque Eloize e la loro scenografa
I quindici del Cirque Eloize e la loro scenografa

FIRENZE. Anche Fiona May, in platea con le sue due bambine, è rimasta sbalordita. E lei, di ginnastica, acrobazie, funambolismi, qualcosa ne sa e lo ha anche ampiamente dimostrato, negli anni scorsi.

Ma quello che riescono a fare e che hanno fatto vedere i tredici straordinari artisti del Cirque Eloize ieri sera al Teatro Verdi di Firenze (si replica stasera, giovedì 16, fino a sabato 18, sempre alle 20;45; domenica 19 invece alle 16) ha dello straordinario.

Acrobati, certo, vengono dal circo, alcuni; equilibristi, tutti, ma che di lignaggio; ballerini, stratosferici, anche se con particolare predilezione per l’hip pop; atleti impeccabili, con una distribuzione della massa corporea e muscolare da far impallidire chiunque si permetta, al loro fianco, di sfoggiare tartarughe stanche. Artisti eccellenti, con una concentrazione, preparazione e condivisione in grado di annichilire qualsiasi efferata e cinica organizzazione criminale.

Sono una nicchia di poeti maledetti, gli artisti del Cirque Eloize e le loro odi hanno pietrificato lo stupore di chi ha avuto la fortuna e l’onore di assistere al loro spettacolo. Che è ambientato in un ghetto metropolitano statunitense, pare si possa immaginare, con l’aria insalubre, quella post atomica, come se si trattasse di un remake teatrale della pellicola Blade Runner, dove il rumore caotico del traffico e della lotta per la sopravvivenza sono il filo conduttore dell’esistenza quotidiana. In sottofondo, però, si sentono, perfettamente, le note metal-funky sulle quali, tutte la gangs che si aggirano in strada, hanno pattuito di affrontarsi.

Per scaldare l’ambiente si salta con la corda, ma in modo concentrico: ci sono tre, quattro, cinque corde che girano con lentezza e a saltare non ci sono innocenti bambini con i grembiuli, ma ceffi decisamente poco raccomandabili, che adorano dimostrare alle loro femmine cosa siano capaci di fare, sfidando le leggi della gravità, la matematica e le opinioni. Dal canto loro, le femmine del gruppo, hanno fisici scolpiti, ma non sfoggiano tacchi a spillo e autoreggenti: indossano tute anatomiche, che esaltano bicipiti e addominali, o jeans, larghissimi, che consentono loro di restare all’interno di una ruota per svariati minuti, circumnavigando il palcoscenico del teatro fiorentino con ossessionante precisione.

Nel mezzo, una pertica che arriva fino all’estremità dell’immobile; non aspettatevi cubiste peccaminose: è terra di atleti, che sfoggiano esercizi che si stenterebbe a credere possibili, se solo non si fosse lì, a rimirarli, qualche metro più in basso. Restano sospesi nell’aria, come se sul palco del Verdi, la gravità, fosse assente, come se prima dello spettacolo maestri dell’inganno l’avessero insonorizzato e trasformato in una sala iperbarica: si espongono a bandiera, restando in apnea, o lasciandosi improvvisamente cadere a terra, lasciando presagire l’imminenza della tragedia.

Scherzano, perché a due dita dal suolo, azionano i freni e si arrestano, paralizzando tutti gli arti in un provvidenziale stop, ma anche, e soprattutto, le mascelle del pubblico sbigottito, che stenta a credere che tutto quello che stanno guardando possa esser vero. Se lo possono permettere i componenti di questa commissione multietnica e multirazziale, che ha il suo centro operativo in Canada, come le Cirque du Soleil, del resto.

Loro sono quelli dell’Eloize, lampi di calore, come recita la traduzione letterale, che servono ai protagonisti per armare le loro dimostrazioni e, contemporaneamente, ad irrorare il pubblico con le loro prove. Di coraggio, coordinazione, precisione millimetrica. Ci sono clown, nel gruppo, illusionisti, giocolieri; qualcuno ha lasciato il circo vero e proprio, dove al posto delle fiere c’erano già le biciclette, comunque, sulle quali e con le quali scalare pareti quasi lisce, confidando solo in millimetriche sporgenze sulle quali poggiare i copertoni, anteriore e posteriore, per sollevarsi fino al terrazzo successivo e per poi riscendere a valle, dove il pubblico si spazientisce per dovere rimandare di qualche attimo il fragoroso applauso che adora decretare al funambolo di turno.

Ma per restare senza parole occorre aspettare l’approssimarsi della fine dello spettacolo, quando tutti e quindici, con la coreografa che li osserva e li segue da dietro le quinte con le dita incrociate, scaramanzia perdonabile visto che giocano con la morte ogni volta che si esibiscono, per il gran finale, svuotati dalla tensione ormai alle spalle, si riservano di lasciare la sala con il gioco del formicaio. Le pareti dello stabile del ghetto americano dopo il terzo conflitto mondiale sono le stesse sulle quali hanno improntato l’intera dimostrazione; nel mezzo, però, c’è una rete, metallica, sulla quale tutti, con imbarazzante sincronismo, si lasciando cadere per poi rimbalzare e tornare, esattamente, nel solito punto dal quale si sono lasciati cadere. Un incessante andirivieni, come se i giovani della compagnia avessero saputo, poco prima di andare in scena, che Esopo fosse in sala e che ancora nessuno, dopo millenni, si fosse ricordato di voler rappresentare una delle sue più celebri favole.

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