UN DOLORE inconsolabile quello provocato, stamattina, alle prime luci dell’alba, dalla notizia della morte di Pino Daniele. Ma non perché il cantautore napoletano non avesse ancora compiuto 60 anni; non è la prima volta che i fuoriclasse abbiano in dono, oltre che qualcosa in più, anche qualcosa in meno, tipo un’esistenza ridotta, rispetto ai comuni mortali. E nemmeno perché lui fu uno di quei pochissimi artisti che seppe valorizzarsi coinvolgendo, nella sua esperienza orbitante, gli amici-colleghi d’infanzia, quelli nati nella sua stessa maledetta-benedetta Napoli, con i quali spartì le sue prime esperienze musicali: Tullio De Piscopo, Rino Zurzolo, Joe Amoruso, Tony Esposito e James Senese, l’ispiratore naturale del titolo del suo terzo capolavoro, Nero a metà. Siamo convinti che dal suo cilindro qualcosa di meraviglioso dovesse ancora uscire, non foss’altro che le semplici reunion, come l’ultima, purtroppo definitiva, di Verona.
Per questa tournée, interrotta quasi sul nascere, Pino Daniele aveva chiamato a raccolta tutto il proprio entourage partenopeo, iniziando dal batterista, l’amico di sempre, Tullio De Piscopo. Abbiamo provato a sentirlo, stamani, per raccogliere due lacrime: chi ci ha risposto al suo telefonino ci ha detto che non se la sente di parlare: ora proprio no, sta troppo male.
Ci crediamo. Come crediamo al profondo dolore trasversale che ha colto, stamattina, tutti quelli che lo ascoltavano: da oggi, questo paese ha qualcosa in meno, qualcosa di particolarmente importante. Una tragedia che somiglia, in tutta la sua impotenza per noi spettatori ammutoliti e attoniti, all’altra avvenuta venti anni fa, quando improvvisamente scomparve un altro napoletano inimitabile, Massimo Troisi. Quel giorno, i titoli dei giornali, recitarono, servito su un vassoio di lacrime argentee, non ci resta che piangere. Tra i due fuoriclasse, Troisi e Daniele, poi, c’era anche un’amicizia fraterna, dettata soprattutto dalla vicendevole consapevolezza di avere, rispetto al resto della città tutta, una fortuna particolare: quella di poter slangare in qualsiasi angolo del mondo senza avere il dubbio di non essere capiti, o fraintesi.
Ci consoleremo, comunque, riascoltando a ripetizione, come facciamo da sempre, del resto, i suoi primi tre album, che sono, in sequenza, le sue opere maggiori, Terra mia (1977), Pino Daniele (1978) e Nero a metà (1980). Con il terzo, poi, la consacrazione divenne leggenda tanto che l’organizzazione del primo Blues’In, quello del 1980, quello senza la Tafuro family, decise di invitarlo ad impreziosire il battesimo di un evento che per fortuna resiste come uno dei pochissimi rappresentanti del blues italiano; l’altro era Roberto Ciotti, scomparso anche lui, poco tempo fa. E noi, che ne eravamo restati folgorati, a quel primo Festival Blues c’eravamo.
Certo, anche tutto quello che è venuto dopo è stato meraviglioso, ad iniziare, sempre in ordine di tempo, da Bella ‘mbriana, l’album del 1982, la raccolta con Wayne Shorter e Alphonso Johnson, due musicisti che già allora, oltre trent’anni fa, facevano la differenza, in qualità di strumentisti dei Wather Report. E poi Nanà Vasconcelos e tutta quella pletora di musicisti che prima o poi hanno avuto l’onore di esibirsi, almeno una volta e dal vivo, sul palco in compagnia della sua chitarra e della sua voce, modulata in si bemolle.
Un poeta sopraffino, un musicista straordinario, un uomo schivo e refrattario, innamorato della sua vita privata. Lo ricordiamo in una delle pochissime occasioni che riuscimmo ad avvicinarlo (Campi Bisenzio, Firenze, Festa de l’Unità) quando sillabò poco e nulla alle nostre domande. Parlare non era il suo forte: preferiva cantare e suonare. E lo ha fatto meravigliosamente, fino all’ultimo concerto.