“A SONG FROM BENARES”, IL RACCONTO DI UN PISTOIESE IN INDIA. 1/2

Omar Cecchi nel viaggio in India
Omar Cecchi in viaggio in India

PISTOIA. Tra agosto e settembre del 2015 Omar Cecchi, un giovane percussionista pistoiese, ha compiuto un viaggio di circa un mese ed in totale autonomia in India.

Lo abbiamo intervistato per poter restituire le impressioni che l’oriente, con la sua vita brulicante di contraddizioni e complessità, suscita agli occhi di un occidentale.

La permanenza è stata anche l’occasione per sostenere, a Varanasi, o Benares, la città sacra dell’induismo, delle lezioni di tabla, il tradizionale tamburo indiano, che insieme al sitar, il famosissimo cordofono, costituisce l’accompagnamento della musica classica indiana.

Le lezioni si sono svolte presso la Mishra Academy of Indian Classical Music una famiglia di musicisti da 8 generazioni e, durante la permanenza, c’è rientrata pure la partecipazione alla festa della nascita di Shiva, in cui per tutta una notte, si è pregato e mangiato accompagnati dalla musica e dai tradizionali abiti colorati.

La dea Kalì [foto Omar Cecchi]
La dea Kalì [foto Omar Cecchi]
Pensando al linguaggio occidentale, per intendersi quello espresso da Beethoven, Mozart o Bach, si sarebbe tentati di ritenere “minore” il linguaggio classico indiano, in quanto diverso dal quello sublime che conosciamo.

Infatti la musica classica indiana, portata fuori dal luogo d’origine da Ravi Shankar (amico e collega del maestro Shivrath Mishra), ha un concetto ritmico dello spazio totalmente diverso e molto più ampio di quello a noi familiare.

Prevale la forma improvvisata, che non corrisponde alla casualità; non esiste simultaneità, il tutto potrebbe evocare il canto gregoriano (prima che venisse scritto): all’opposto del componimento polifonico diremmo, in gergo tecnico, che si presenta monodica e modale, senza però che l’assenza di verticalità, simultaneità e rigore logico impediscano di esprimere con profondità ogni stato dell’animo.

Ci sono anche altri facili pregiudizi sulla cultura indiana: la presunta inferiorità del sistema delle caste. Ben lungi dal giustificare una divisione classista della società, le caste ancora oggi dimostrano il fondamento per cui sono nate: far convivere, in un proprio spazio e senza reciproche prevaricazioni, i vari gruppi sociali che per natura non possono essere uguali.

I templi di Kajuraho [foto Omar Cecchi]
I templi di Kajuraho [foto Omar Cecchi]
Certo, l’odierna occidentalizzazione ha sparigliato le carte in tavole, ma il principio di non ambire a divenire altro da ciò che si è ha permesso nel tempo e tuttora permette, una condizione di stabilità e di rispetto all’interno del pluralismo di Varanasi.

Non così nel nord del mondo, dove la democrazia, a conti fatti, non solo ha distrutto le minoranze (culturali, linguistiche, politiche etc), al netto di quelle che riescono a stento e strenuamente a resistere, ma addirittura ha derubricato il più grande genocidio umano, quello dei nativi d’America, a mero scivolone di percorso.

Anche la dimensione religiosa non sfugge alla complessità e, talvolta, a vere e proprie forme di sincretismo, metamorfismo e zoomorfismo.

Sculture erotiche di Kajuraho [foto Omar Cecchi]
Sculture erotiche di Kajuraho [foto Omar Cecchi]
Il linga, simbolo fallico di Shiva e dell’assoluto, conficcato nel sesso femminile e sovente avvolto da un serpente, è rappresentato un po’ dovunque, disegnato o intagliato in pietra e in legno.

Ciò che per noi costituirebbe una mera cafoneria di un gruppo “sgangherati” di qualche suburra è per gli indiani icona del sacro, lungo le strade e nei templi. Questione di prospettive. L’induismo non si può definire o classificare: si può associare a Visnu, Shiva e alla dea Kalì dalla terribile lingua tagliente, ricorrenti in sgargianti raffigurazioni.

Immagini di Kalì compaiono anche nei templi buddisti del Ladak. A Kajuraho si trova un complesso di templi medievali, eretti a cavallo dell’anno 1000 e dedicati a divinità giainiste e induiste. Sono tutelati dall’Unesco e celebri principalmente per le sculture erotiche.

Colori e volti di Benares [foto Omar Cecchi]
Colori e volti di Benares [foto Omar Cecchi]
Architettonicamente, però, con le loro uniche forme a guglia e pinnacolo – uno supera i 110 m – dimostrano che l’Oriente, a quell’epoca, non aveva niente da invidiare al livello tecnologico e costruttivo raggiunto dal vecchio continente.

Attualmente ne rimangono una ventina degli oltre 80 originari ed il sito, sorvegliato da guardie ed unicamente turistico, sembra un po’ artefatto, anche con i giardini verdissimi all’inglese non presenti prima di qualche decina d’anni fa.

Si racconta che quando le sculture erotiche furono dissepolte dalla vegetazione il Mahatma Ghandi, inorridito dalle impudicizie, ne avesse platealmente auspicato la ricopertura, a dimostrazione della distanza siderale tra certa tolleranza predicata (sul modello tutto occidentale dell’ipocrisia ingegnerizzata) e la reale apertura mentale nonché rispetto del diverso, in quel caso di una cultura millenaria che non si vergognava dei desideri terreni.

Anzi, li rappresentava, senza esclusione di perversione, forse con scopi didascalici e nella consapevolezza che si trattasse di una tappa necessaria verso il nirvana. Un altro patrimonio dell’Unesco è il Taj Mahal, anche se l’aspetto scenografico del voluminoso marmo elegantemente sagomato non trasmette niente se non un prezioso set da cartolina. Si trova ad Agra, dove la stazione ferroviaria è modernissima e attrezzata; fuori c’è di tutto.

[continua]

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