
PISTOIA. “Sono un medico, sono una pediatra: trascorro la mia vita cercando di guarire la gente, soprattutto i bambini. Ma so sparare e lo faccio bene: se occorre, non avrei paura ad usare le armi”.
A guidare la moto, forse, papà Ernesto, non ha fatto in tempo ad insegnarglielo, ma il coraggio, la forza delle idee, la dignità e la solidarietà sono sentimenti che è riuscito a tramandarle sicuramente, altrimenti, Aleida Guevara, la figlia del Che, anche lei, proprio come il padre, medico e pediatra, certe cose non le penserebbe.
Benché mai le direbbe poi, e in pubblico, come ha fatto ieri sera, martedì 17 marzo, nella parrocchia Santa Maria Assunta di Santomato, invitata a partecipare, da Aps Oscar Romero e dall’Associazione Rete Redié Resch, all’incontro-dibattito In ascolto degli ultimi, chi li crea.
Il suo intervento, lucido, documentato, diretto, violento, ma tenero, romantico, utopico quanto basta per continuare a credere e sperare che un altro mondo possa davvero esistere, puntualmente tradotto da Flora Misitano, simultanea, è partito dal 17 dicembre 2014, quando la stampa italiana ha enfaticamente sottolineato come quel giorno fosse caduto il secondo muro. Si riferivano, i colleghi della carta stampata nazionale, al rilascio di tre cubani detenuti nelle carceri statunitensi, un segnale che pareva sancire, di qua dal mare e con tutta la demagogia alle spalle, la fine delle ostilità tra Stati Uniti e Cuba.
“Non è caduto alcun muro – ha inveito Aleida Guevara –. I nostri tre connazionali sono stati liberati e rimandati nelle nostre case solo perché l’America aveva estremo bisogno di chiederci una cortesia: avevano bisogno di nostre équipe mediche per fronteggiare il dilagare del virus dell’ebola. Tutto qui. È inutile che il Presidente Barack Obama, nonostante abbia pubblicamente riconosciuto il fallimento della politica estera del suo Paese, soprattutto nei nostri confronti, si pavoneggi molto: il Senato statunitense è composto massimamente da repubblicani e loro, da ottimi reazionari quali sono, di fare i conti con noi non ne hanno alcuna intenzione. Lo hanno dimostrato nelle campagne espansionistiche in Iran, in Iraq e lo continuano a dimostrare oggi, in Venezuela. I nostri amici sudamericani però, anche se deboli e pressoché impotenti rispetto allo strapotere a stelle e strisce, sul nostro aiuto possono sempre contare: lo abbiamo imparato tutti, da mio padre, cosa voglia dire essere solidali”
“Cuba, da troppi anni – ha poi proseguito la figlia del Che –, non soffre l’embargo, ma il blocco, che è ben altra cosa. Con il blocco, imposto dagli Stati Uniti d’America al nostro popolo, noi cubani non possiamo acquistare direttamente dai paesi produttori le cose di cui abbiamo bisogno, ma siamo costretti a sottostare ad una sorta di cabotaggio che amplifica a dismisura i prezzi. Vi faccio due esempi. Cuba non produce latte: lo acquista dalla Nuova Zelanda, e lo compra in polvere, altrimenti, arriverebbe scaduto. Per farlo siamo costretti a noleggiare delle enormi e onerose imbarcazioni con le quali possiamo trasportare, con un unico viaggio, un quantitativo considerevole del prodotto. Peggio ancora con i farmaci. Otto medicinali su dieci sono brevettati dal Nord America, mercato questo al quale non possiamo in alcun modo rivolgerci e anche se trovassimo ditte disposte a rischiare, il gioco, per loro, non varrebbe certo la candela. Le multe, in caso di vendita clandestina a noi cubani, oscilla tra i 5 e i 10 milioni di dollari. Capite bene che nessuno si mette all’anima di venirci incontro”.
“Ma non ci preoccupiamo – ha aggiunto, prima di dare tempo e modo ai presenti di interagire direttamente con lei –, perché a Cuba, da tempo, abbiamo imparato a cavarcela da soli. Certo, la rete dei servizi pubblici è davvero problematica, così come le strade, pericolose e piene di buche. La povertà, da noi, si fa sentire bene, ma siamo un grande popolo, con una voglia indescrivibile di stare bene e di essere felice: siamo un popolo che studia, che si documenta, che non teme la fatica. Da parecchi anni abbiamo creato dei veri e propri poli scientifici, con biologi, scienziati e medici che stanno cercando di trovare alternative a quello che non abbiamo e che non ci permettono di compare altrove. Siamo all’avanguardia della farmacologia che tende a prevenire, prima che a curare, il tumore alla prostata e ai polmoni: usiamo il veleno dello scorpione azzurro, ad esempio e molti altri ritrovati che ci regala la nostra meravigliosa terra. Non sono alchimie miracolose, ma farmaci a pieni effetti e meriti, capaci di interrompere i decorsi delle malattie”.
In chiesa, seduta sulla panca disposta in prima fila nella chiesa di Santomato, tra il pubblico che ascolta, c’è anche la figlia di Aleida Guevara, la nipote del Che: è molto carina, vestita parecchio occidentale. Speriamo che non si lasci lusingare, con il tempo, dalle sirene capitalistiche e occidentali e che studi, casomai per diventare medico, proprio come la mamma, proprio come il nonno, Comandante Che Guevara.
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