LAMPORECCHIO. L’occasione è ghiotta. Alla stessa ora il prossimo anno, la commedia di Bernard Slade, tradotta e adattata da Nino Marino per la regia di Giovanni De Feudis, si presta terribilmente a qualsiasi sfumatura. E non di grigio.
Ci sono accenti kafkiani in questo incontro surreale, statunitense, tra George e Doris, Marco Columbro e Gaia De Laurentis: lui è lontano da casa per lavoro; lei, pure, ma chiamata da un ritiro spirituale. Si svegliano insieme, la mattina, nel letto matrimoniale di una suite dove nella notte hanno consumato amplessi indimenticabili e lì, ogni anno, alla stessa ora, si ritroveranno, per oltre venti anni.
Conoscendo la storia, avvicinabile alla maestosa tragedia di Heinrich Boll, E non disse nemmeno una parola, eravamo convinti, prima della rappresentazione, che i due attori, abili, elastici, simpatici e parecchio professionali, si sarebbero impossessati della storia parecchio violabile per condurla laddove arriva, certo, ma seguendo un percorso tutt’altro che leggero, optando per una tortuosa inerpicata, ricca di pathos, verso la dissoluzione dell’inesorabilità del tempo che trascorre e che affievolisce le passioni, trasforma gli umori, inverte tenue convinzioni.
Marco Columbro e Gaia De Laurentis, invece, si sono limitati al minimo indispensabile, sindacale, riuscendo comunque ad accontentare e divertire il pubblico del teatro di Lamporecchio, che ha accompagnato la rappresentazione con risate di gusto, anche se nemmeno ieri sera, martedì 24 marzo, per l’ultimo appuntamento stagionale, ha voluto omaggiare il cartellone lasciando qualche poltrona di troppo vuota.
Tra un appuntamento e il successivo, che per motivi di tempo teatrale decidono di scandire a lustri, l’America festeggia il boom, sogna la pace, piange il dolore. La nota didascalica è offerta da uno schermo, su quale si susseguono le immagini dei Beatles e dei Queen, di Martin Luther King e Che Guevara, Nixon e Fidel Castro, i Rolling Stones e Andy Wharol, Cassius Clay e John Wayne, Woodstock e Saigon.
George e Doris, invece, restano gli stessi e non basta, per transumanza, cambiarsi d’abito, masticare il chewingum a bocca aperta, abbigliarsi come i figli dei fiori e irrigidirsi al trascorrere della vita che dispensa fallimenti, dolori, morte, anche se ipotizzando resurrezioni: manca l’erotismo che avrebbe dovuto essere l’unico ingrediente dell’esordio, ma non c’è nemmeno la fatale arrendevolezza di voler fare i conti con un’esistenza parallela, quella che nasce e muore ogni anno, alla stessa ora, nel solito posto per circa venticinque anni, tra due protagonisti che si sono posseduti per fatale attrazione chimica e che decidono di proteggere quell’inconfessato e inconfessabile mistero per gli anni a venire, con le rispettive famiglie che crescono, cambiano, si evolvono, continuando a garantire ad entrambi quelle meravigliose 36 ore lontano da tutto.
Nulla di tutto questo, invece. Marco Columbro e Gaia De Laurentis restano sospesi, evitando di immergersi nelle viscere della passione all’inizio e sottraendosi dal giudizio del tempo alla fine, restando a prendere il sole sulla spiaggia di Viareggio e facendo il bagno nel mare della Versilia anziché rischiare di ustionarsi ai Tropici e immergersi tra le onde caraibiche.
La vacanza è salva, il teatro un po’ meno.