Ho riesumato questo ameno racconto stralciandolo da un lungo intervento di uno dei pistoiesi più importanti per il valore umano e culturale, il Professor Raffaello Melani. È l’uomo che mi ha insegnato a leggere, capire e soprattutto tradurre i classici greci e latini. In quel mare di sapere, c’era tutto. Anche la malizia vivace di in Orazio e, insieme, quella feroce e ridanciana di un Aristofane puro e incontenibile. Insomma, la grandezza. Il Professor Melani – Fello, per noi –, era anche quest’uomo duvertito che ci narra certe usanze pistoiesi non più in voga, pur se quanto a “materiale cornistico” da San Martino, ce n’è ancora da non credere e da buttare via nella città di Cino. È stato per me, dantescamente, “maestro e donno”. Lo devo qui ricordare con la commozione incontenibile degli “irrevocati dì”… e.b. |
SONO ARRIVATO ora ad un punto scabroso; ad uno sfogo, pieno di lamenti, acuti e strazianti, per la perdita più grave che tutti abbiamo ed avete sofferto. Peccato! Gran peccato, che sia scomparsa, senza lasciare una traccia, un’altra consuetudine, infinitamente soave, cara ad ogni animo gentile, succo ed essenza del più sano folklore, retaggio di secoli passati e migliori.
Era una costumanza di una delicatezza squisita, con la quale il nostro popolo buono mostrava la sua comprensione commossa verso una diffusa porzione di concittadini, la cui disgrazia non è possibile mai condividere né portarne il peso a metà; era una costumanza che aveva, per suo nobile scopo, la commemorazione pietosa – (dei defunti, direte, voi, – No, no: quella c’è sempre; qui si tratta di vivi) –, la commemorazione, intendo, dei mariti pazienti e dolenti, che siamo soliti chiamare cornuti e volgarmente, con una parola schioccante di due sillabe sole: becchi.
Non è che la tradizione simpatica sia stata interrotta per mancanza di uomini coronati, come sono spariti quasi tutti i monarchi: non è che gli autentici becchi scarseggino e che noi ci incamminiamo dolorosamente verso l’estinzione della specie, come si teme per tanti mammiferi, pesci ed uccelli. No! No! Per carità! La merce sul mercato c’è ed abbonda; non esiste quindi la paura di rincari, né di conseguente calmiere.
Non mi risulta, – e credo neanche a voi – che il governo, i sindacati, i cittadini che vanno a fare le spese giornaliere, siano ossessionati dal possibile, deprecabile rincaro delle corna. Per l’amor di Dio! Qui si imporrebbe un calmiere a rovescio, un provvedimento che cercasse di frenare la corsa dei prezzi all’ingiù, perché sarebbe benemerita, dovesse precipitare, con vergogna, in fondo al listino del mercato e diventare famosa, invece che per il suo plusvalore, per il suo deprezzamento totale.
Una volta, con che batticuore si attendeva a Pistoia – e più là – l’11 di novembre, la festa gloriosa di S. Martino, sacra a tutti i mariti dotati di mogli generose, i quali si aspettavano – e qualcuno ci teneva pure – un pubblico attestato, un riconoscimento, un attaccamento, accanto alla porta, a riprova che essi erano dei veri e propri professionisti, dei militari, se non in servizio permanente effettivo, almeno di complemento.
Sono arrivato così ad un capitolo che scotta – è chiaro – e voglio prendere le opportune misure di sicurezza, prima di incominciare questa tipicissima cronaca di giorni che furono.
A tale fine racconterò, tanto per impratichirvi, un episodio piccolo piccolo, ma anche pieno di dolcezza, un esempio raffinato di cortesia e di riguardi scambievoli tra becchi, i quali non cozzano sempre tra loro – (questo lo disse Dante dei conti di Mangona: “ond’ei, come due becchi, | cozzaro insieme, tanta ira li vinse”).
Ciò che sto per riferirvi è un fatto toccante, accaduto – dirò così –- nella nostra Toscana. Questo vi serva di aperitivo e di introduzione.
Successivamente, una volta entrato nel vivo dell’argomento, riferirò, per concludere, due casi sublimi, scelti nella massa impressionante, sicuro che solleticheranno, con prurito ancora più pizzicante, la vostra curiosità.
Mi raccomando l’attenzione più desta.
Dunque, nel giorno fatale, quello di S. Martino, da una tranquilla palazzina, abitata da due rispettabilissime famiglie, da due cittadini, austeri esemplari della scienza e della coscienza, uscì fuori uno di questi, lesse, con raccapriccio, sopra il muro della facciata, che sotto quel tetto le corna abbondavano e prolificavano con ritmo crescente e, da vero signore qual era, pregò il portiere, ancora all’oscuro di quel grafico misfatto, di correre – per carità – a cancellare l’infamia, perché, se fosse sceso quell’altro, notoriamente arcitradito dalla moglie, con turni lavorativi di giorno e di notte, ordinari e straordinari, avrebbe potuto leggere, sciorinata ai quattro venti, la storia del suo gravissimo disguido familiare.
E così, lieto del buon suggerimento dato al portinaio, con un consapevole sospiro, si allontanò dignitoso, non senza gettare, di traverso, per la seconda volta, uno sguardo disgustato e sprezzante sopra quel dipinto, corredato di parole e di numero mistico, e manifestamente obbrobrioso, anche se lui, nel suo giustificato egoismo, si sentiva estraneo alla citazione e al di fuori del bersaglio.
Ma il custode della casa, incaricato di fare da cancelliere, non aveva ancora brandito spugna e raschiato, che scese il secondo illustre luminare per prendere una boccata d’aria mattutina (più precisamente, una beccata), ignaro di essere stato preceduto, nell’uscita e nella lettura, dal suo amico illustre: orbene, scorgendo anche lui, con penosa sorpresa, la nauseabonda notazione, corse per direttissima (“o gran bontà dei cavalieri antiqui”) dal portiere e lo pregò affannosamente di cassare, con urgente premura, tutto quel sudiciume, non dovesse, per caso, l’altro, (disse proprio l’altro), quello ormai già lontano da casa, e, a giudizio suo, cornuto in esclusiva, leggere la scritta assassina.
Erano becchi entrambi, a pari merito ed uguale punteggio, patentati, conclamati, pluridecorati, ma entrambi felici. Ciascuno sapeva del coinquilino, ma ignorava di sé, godendosi, in quello stato di beata incoscienza, una delle poche gioie autentiche concesse a questa nostra povera vita.
Meglio, molto meglio, e con più drastica procedura, negli altri due casi, che sto per esporvi.
In un manifesto elettorale fatto affiggere a Pistoia da un candidato notoriamente becco con paradisiaca rassegnazione, nel quale costui aveva, per imprudenza, garantito ai suoi potenziali, rari elettori: “la mia vita è un libro aperto”, che è anche il nome del monte notissimo del nostro Appennino, nella notte seguente l’affissione fu impressa, a stampino, un’aggiunta, che, sfruttante il nome del monte vicino, diceva: “e un corno alle scale”; se non che, in questo caso, il corno non era uno solo, ma si contavano a centinaia.
E, per finire, citerò una scritta di contenuto analogo, impressionante per la sua drastica e tragica sintesi, perché comprensiva della storia di un intero casamento.
Fu tracciata con tinta indelebile, preparata con un olio infernale, tanto che non voleva affatto andar via (non c’erano cristi) e per renderla soltanto meno visibile, ma sempre leggibile, fu necessario, per una mezza giornata, il lavoro d’un operaio specializzato, con spreco oceanico d’acqua ed una conseguente strage di spugne.
La dimora, che ebbe l’onore della cubitale iscrizione, era ed è nel cuore di Pistoia. Quale essa fosse e sia resti “top-secret”.
Ed ora eccovi la storica scritta: “qui becchi a tutti i piani”.
Ma è tempo, ormai, di andarcene a letto, perché il di più guasterebbe, seppure non ha già guastato il di meno.
Raffaello Melani
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[da Viridarium. Inediti di Raffaello Melani, a c. di Amerigo Bucci, Tipografia Dami, Pistoia, 1986, pp. 89-92]
pochi mi piace perché molti cornuti a pistoia?
Sicuramente tanti cornuti (e di riflesso tante prostitute), ma sopratutto tanti ignoranti che non sanno chi era il Prof. Melani. Una stradina, una piazzetta, libraio Bertinelli, no?
E, una volta tanto (ma quando è giusto è giusto, se si vuole essere onesti), bravo Bonacchi.
Piero Giovannelli