OŚWIĘCIM (PL). I campi di concentramento di Auschwitz sono tre: Auschwitz, Birkenau e Monowitz, più un’infinità di sottocampi. Il terzo, Monowitz, come campo non esiste più.
Auschwitz e Birkenau sono due campi diversi. Il primo è una caserma militare riadattata a campo di prigionia e trasformata ora in museo. Costruito e trasformato con la ragione, fatto e modificato per essere capito, per far comprendere.
I padiglioni ricavati nei Block in cui era suddiviso il campo, raccolgono il materiale storico e spiegano l’orrore della follia umana applicata su scala industriale.
Non lo accetti ma lo comprendi. È un museo e come tutte le esposizioni filtra ciò che viene presentato.
Lo chiamano museo, ma è un museo particolare diverso dagli altri: un padiglione dedicato alle valige che formano una montagna; un padiglione dedicato ai capelli, uno agli occhiali, uno ai pennelli da barba, uno alle pentole; un altro padiglione e un altro ancora e montagne e montagne di oggetti appartenuti a persone come te, vissute in un periodo sbagliato.
Mute dietro quei vetri, che escono dal passato, ti guardano e ti domandano perché. Perché non hanno avuto la stessa possibilità come noi di vivere una vita.
Poi una montagna di scarpe; piccole scarpe, quelle dei bambini. Ottomila paia. In quella teca di vetro ci sono ottomila bambini e non è una delle più grandi.
Museo… Ma per quella scarpina in mezzo a tante, chi potrà dire se è appartenuta ad bimbo o ad una bimba, se aveva i gli occhi marroni o celesti, se era bionda o castana… Museo… Lo chiamano museo. Ma in un museo tutto è catalogato, con nomi, cognomi, date e avvenimenti; qui no. Qui è tutto massificato. Nelle gigantografie le persone di ieri, con le loro emozioni scolpite nei volti: indifferenza, odio, rassegnazione, disprezzo, incredulità ma anche amore, quello di una mamma che stringe la mano a suo figlio… Persone… Ma non hanno un nome.
Migliaia, milioni di storie ormai mischiate e inscindibili l’una dall’altra, in un tutt’uno. Storie ormai perse per sempre.
Birkenau no. Birkenau non è niente di tutto questo. Birkenau è crudo, ti sovrasta, ti schiaccia togliendoti il respiro. Vieni sprofondato in un’altra dimensione, in un inferno gelido.
Impossibile immaginare e comprendere l’orrore di cui è capace l’uomo nei confronti del proprio simile e perfino nei confronti di coloro che dovrebbero essere protetti: i bambini.
L’orrore creato dall’uomo in mezzo al nulla è ancora lì, presente e preservato a monito per non dimenticare.
Ancor oggi, le case ricostruite intorno al campo sono pochissime e quello che colpisce è la vastità del luogo: immenso senza fine e soprattutto senza speranza.
Una sensazione accentuata ancor di più da una campagna piatta e da un cielo altrettanto piatto e plumbeo, grigio, un non-colore per una non-vita. Una terra di mezzo sospesa nel tempo.
Le baracche, o quello che ne rimane, si perdono a vista d’occhio. Ordinate e ben allineate, tutto deve essere uniformato per spersonalizzare tutto e ridurre l’uomo ad un numero. Niente più gli deve appartenere neanche la vita.
Il freddo, ma forse più l’umidità, nonostante l’abbigliamento pesante, si fa sentire, morde e ti penetra nelle ossa: eppure non ci sono i meno 40 gradi dell’inverno del ’42.
Non c’è la neve, ma il fango ed è il fango dell’uomo. Birkenau, oggi lo subisci, ieri ti annientava…
Una testimonianza commovente Marco, grazie.
E’ uno scritto che sembra una favola, che lascia un immenso spazio all’immaginazione, dove la tragedia ti colpisce ancora di più, perché descritta con leggerezza e con sensazioni. La stessa leggerezza e le stesse sensazioni che ho sentito nelle parole di chi, pur non essendoci stato, si è trovato deportato in Russia e ha saputo di queste atrocità nel lungo viaggio di ritorno a piedi in Italia.