ROMA. Sono saliti alla stazione Re di Roma delle linea B della metropolitana. Hanno chiesto a un’anziana, in procinto di scendere, di dire loro il nome di una cosa. Poi, sulle immaginazioni estemporanee dettate dal termine sera, quello che la donna ha detto scendendo, hanno improvvisato un rap: Carlo rimava le nenie tradizionali, Sante simulava le basi ritmiche, il beatbox.
La gente di Roma, rassegnata a questue di ogni ordine e grado, non ha inizialmente dato il giusto peso ai due artisti di strada, anzi, di metropolitana, fingendo di non sentirli nemmeno.
Poi, quando il ritmo è diventato avvolgente, le rime scriteriate e di denuncia, lo skretch di sottofondo degno delle migliori consolle, anche i più diffidenti hanno condiviso il rap di Carlo e Sante, iniziando a ciondolare la testa.
Certo, ognuno ha proseguito per la propria strada, scendendo alla stazione di destinazione. Ma tutti, proprio tutti, prima di ricollegarsi con la propria vita, hanno lasciato, nelle scatoline che Carlo e Sante tenevano in mano, una moneta: quella che servirà loro a rappare ancora.