PISTOIA. Vivo in una sorta di pessimismo cronico, addolcito talvolta dalla presenza di chi sa guardare nella mia stessa direzione. La scuola dovrebbe insegnar anche questo: scoprire se stessi.
Siccome si festeggia il centenario dell’istituto Filippo Pacini di Pistoia, scuola da me frequentata con scarsa voglia ottenendo, alla fine del quinquennio, il foglio di via libera che non ho ancora ritirato, ho percorso a ritroso più o meno tutti gli anni che ho trascorso lì dentro arrivando ad un’amara conclusione: più che una scuola, temo sia (o fosse, poiché non ne conosco gli eventuali sviluppi intervenuti) un parcheggio per dipendenti pubblici.
Non ho mai brillato nei risultati, e non me ne dolgo particolarmente se non per le preoccupazioni che ho inflitto ai miei genitori, però c’è un però: ho scoperto chi sono e cosa amo, e non è poco.
Lo dico con una punta d’orgoglio perché, guardandomi attorno, ritengo non sia cosa da tutti. Lo avrei dovuto fare tanto tempo fa ma mi sono deciso solo adesso: il mio pensiero, durante quest’evento di ricordi, va al mio professore di lettere Enrico Mantilli, della cui compagnia ho purtroppo potuto godere solo negli ultimi due anni.
È doveroso, oltre che giusto, concedere gli onori a chi se li è meritati, soprattutto se si è trattato di un nobile guerriero, provvisto di magnifica barba che esprime saggezza, che ha combattuto per anni l’assenza di idee e di coscienza che affligge la scuola (ed anche quella scuola) rendendola una mortifera palude. Se talvolta qualcuno si è recato all’istituto Pacini non per conquistare un voto ma per conquistare se stesso, lo si deve al professor Mantilli.
Chiunque lo abbia conosciuto avrà un suo ricordo particolare, e non sono qui per raccontare i miei. Voglio e devo però testimoniare che è esistito in quest’epoca un professore che ha saputo trasformare l’apprendimento cui erano obbligati i suoi alunni in una bussola, accompagnata da quell’odore di tabacco e dal suono di quel canto in latino che volava via per i corridoi asettici e disinfettati e bianchi e anonimi.
Se sono qui a battere su una tastiera, scrivendo sul giornale più bello del mondo, consapevole di cosa sia e di cosa io voglia, o quantomeno del fatto che scoprimi è per me un imperativo categorico, lo devo anche al mio caro Enrico e ai suoi occhietti vispi che trafiggendomi mi permettevano di esplorarmi.
Fu capace, con me e con tutti gli altri, di offrire sé stesso modellandosi in base alle particolari esigenze di ognuno di noi, e non so se ne fosse consapevole.
Probabilmente era per lui naturale mantenere una certa e regolare condotta, forse perché qualcuno, a suo tempo, lo servì fedelmente come poi lui ha servito me. Un servizio senza servilismo poiché nessuno glielo aveva chiesto. Forse potrei dirvi di più ma non voglio rischiare di scadere in un banale memoriale.
Col mio solito pessimismo, che sfuma verso una sana e perenne insoddisfazione, chiudo questo applauso ad un grande eroi dei miei tempi. E in quanto tale, è il triste destino, non ne vedremo presto un altro fatto della solita pasta.
L’oblio, a differenza di quanto dicesti anni fa, nel mio caso non ha fatto il suo corso.
[Lorenzo Zuppini]