C’ERA UNA VOLTA… I FUNAI LUNGO LE MURA

I funai in piazza d'Armi [collezione Ideale Mosi]
I funai in piazza d’Armi [collezione Ideale Mosi]
PISTOIA. [l.c.] Pubblichiamo un articolo, già apparso recentemente in uno degli ultimi numeri di Il Metato, di Luigi Pulcini, apprezzato autore, su riviste locali e nazionali, di testi e saggi su vicende di storia sociale che vanno dagli antichi mestieri all’automobilismo sportivo.

Il Metato, disponibile su supporto cartaceo, è il periodico dell’Associazione Amici di Pupigliana e della valle di Brandeglio, e dà voce alle storie della vita e della cultura dei paesi sui monti circostanti alla città, attualizzando anche il dibattito in chiave moderna e contemporanea.

La cartolina, che in una potentissima immagine delle funi di canapa legate agli alberi cristallizza ed evoca Pistoia com’era, appartiene al ricco patrimonio iconografico del collezionista Ideale Mosi.

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“Far come i funai!” è un toscanissimo modo di dire che serve rappresentare una situazione in cui non si fanno progressi, anzi si indietreggia, riferendosi al tipico movimento del funaio, il quale, nella filatura del cordame, dipanava la stoppa di canapa camminando all’indietro.

Quindi si diceva così di chi, invece di migliorare, peggiorava la propria condizione, e forse anche per il fatto che la produzione di corderia era un lavoro tra i più modesti e duri, che si esplicava all’esterno e che esponeva le maestranze alla pioggia, al vento e al solleone, come testimonia questa bella cartolina realizzata nel primo decennio del novecento a Campo Marzio, l’odierna “Piazza d’Armi”.

Per realizzare cordami al coperto e con le primitive tecnologie del tempo ci sarebbero voluti ampi capannoni e così i funai pistoiesi utilizzarono l’ampio prato intorno alla Fortezza di Santa Barbara per lavorare senza dovere sostenere l’onere di un affitto o della realizzazione di un laboratorio.

Ancora nel primo dopoguerra questa attività si svolgeva lungo il tratto di mura che dall’Arca arriva sino al Bastione Mediceo.

Come si realizzava una corda? Uno degli operatori legava ad entrambi fianchi la stoppa di canapa, fissandola alla cintura, poi il funaio faceva un cappio con la fibra prelevata dai due grossi gomitoli al gancio collegato a sua volta attraverso una puleggia ad una ruota, poi lentamente iniziava ad indietreggiare e filare la fibra di canapa.

L’artigiano alimentava il filo mentre un altro operatore muoveva la grossa ruota che a sua volta metteva in movimento rotatorio il gancio, in una azione che consentiva la torsione elicoidale la corda, la quale, mentre si sviluppava in lunghezza, veniva sostenuta da terra a circa ottanta centimetri con delle rastrelliere che mantenevano in giusta tensione il cavo.

Dai fili di canapa ritorto si ottenevano i cosiddetti “trefoli”, gli elementi che avrebbero costituito il “canapo” in una ulteriore fase di lavorazione.

Accatastamento filaccia [Biblioteca storica nazionale dell'agricoltura]
Accatastamento filaccia [Biblioteca storica nazionale dell’agricoltura]
I trefoli venivano posti a bagno in una vasca piena d’acqua.; la bagnatura durava da un’ora a un’ora e mezza, poi venivano legati agli alberi di fronte alla Fortezza e tesi con i rastrelli, dove venivano lisciati e puliti con una maglia a catenelle di ferro, che, impugnata con due mani dall’operatore e fatta scorrere, bagnando ancora con uno straccio, consentiva la loro “lucidatura”.

Così i trefoli erano asciugati con un panno e lasciati al sole ad essiccare.

Con una ulteriore torsione elicoidale di quattro trefoli, effettuata con la stessa macchina a movimento manuale, si otteneva un robusto canapo.

La materia prima proveniva prevalentemente dalle zone montane dove per la canapa si riservava un appezzamento con la terra migliore, governata con concime di stalla e meglio ancora con letame di pecora mischiato a quello degli asini.

La coltivazione era prevalentemente per l’autoconsumo: la canapa serviva per fare il corredo e i realizzare resistentissimi sacchi per il grano e chi andava a caccia usava i chicchi di canapa per gli uccelli da richiamo e solo una parte del prodotto veniva ceduto ai funai, in cambio dei canapi necessari all’attività rurale.

La stessa cartolina, proveniente dalla collezione di Ideale Mosi, consente di descrivere un’altra attività che era svolta all’interno della Fortezza: la produzione di pallini da caccia. Dal corpo di fabbrica più alto posto in corrispondenza del bastione nord-ovest scendeva perpendicolarmente alla parete una canalizzazione in legno in cui veniva gettato il piombo fuso che, durante la caduta, si scomponeva in gocce che raffreddandosi prima di finire la formavano i pallini utilizzati dai cacciatori per le munizioni delle doppiette.

Questa splendida immagine ha fissato per sempre la memoria di lavorazioni scomparse ormai da almeno mezzo secolo, e di un utilizzo degli spazi cittadini assolutamente inconsueto.

Luigi Pulcini

Vedi anche: Quando in Italia si coltivava la canapa (Il Cambiamento)

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