COME QUARANT’ANNI FA

Finardi in concerto a Quarrata
Finardi in concerto a Quarrata

QUARRATA. Non è cambiato, per fortuna. Eugenio Finardi, ieri sera a Quarrata in concerto con la sua nuova formazione con la quale ha inciso il suo nuovo Cd, Fibrillante, è davvero lo stesso degli esordi, che risalgono, ormai, a circa quarant’anni fa. Quelli di Musica ribelle, Diesel, Non è nel cuore, brani che lo elessero come uno dei più preziosi personaggi del cantautorato italiano, un mix di impegno di snobistica militanza che ricordava la nobiltà di Fabrizio De André filtrato da una preziosa componente musicale cara a chi con la musica non faceva proclami.

Incitava la rivolta, Finardi, un militante della controinformazione che non si dimenticava mai l’amore, la solitudine, l’abbandono, la disperazione, la tenerezza, il sesso: lo faceva intonando riff pregiati, tempi inconsueti, basi ritmiche clandestinamente importate dalle coste atlantiche dell’America.

Un Che Guevara musicalmente forbito, che vantava, nel 1975, strumentisti portentosi, che rispondevano ai nomi di Walter Calloni (batteria) e Franco Cerri (basso), ad esempio e altri mostri sacri con i quali il cantautore italoamericano che aveva preferito la cittadinanza con il tricolore anziché quella a stelle e strisce intonava melodie a dir poco avveniristiche, un cocktail di fusion e world music, jazid e rockblues. Erano i tempi degli Area, tanto per calarsi nell’atmosfera di quelle stagioni, quelli di un indimenticabile e ineguagliabile Demetrio Stratos e contemporaneamente Eugenio Finardi rimava Scuola, raccontava dell’imperialismo americano e dei Kmer rossi, in Ghai Phong, parlava delle sostanze altamente stupefacenti, in Scimmia e in Oggi ho imparato a volare, per poi struggere e rinascere attorno al cuore di Patrizia, ringraziare la moglie che ha saputo reggere al tempo e nel tempo traghettando quella passione da una sponda all’altra, dalle giovanili scariche elettriche dei fulmini del desiderio alla matura consapevolezza del rispetto, perché, come scriveva allora, l’amore è fatto di gioia, ma anche di noia.

Anche ieri la serata è scivolata proprio come si sarebbe potuto facilmente immaginare e soprattutto desiderare: una lunga chiacchierata con il pubblico, non proprio numerosissimo, in considerazione della gratuità dell’evento, intervallata dall’esibizione, felicemente dosata e calibrata, dell’ultimo Finardi con quello dei leggendari brani degli esordi. Lo ha fatto raccontando di quello che sognava e che non ha mai visto l’alba, ma non per questo ha smesso di crederci, anzi.

“Abbiamo il diritto-dovere di riprenderci la vita – ci ha detto Finardi poco prima dell’esibizione nel tendone-camerino adibito a back-stage per poi ripeterlo durante la conversazione con il pubblico –. Non possiamo restare inermi e inerti a osservare un mondo che si sgretola sotto i colpi di un liberismo sfrenato che decreta vita e morte di milioni di persone, spostando, con un semplice click, i capitali da una zona all’altra dell’Universo. Il nuovo umanesimo è quello che secondo me deve riportare l’uomo al centro dell’Universo, riconsegnandogli le chiavi del futuro, che forse si materializzerà con un coraggioso passo indietro”.

Eugenio Finardi durante l’intervista
Eugenio Finardi durante l’intervista

Lo ha continuato a dire con la consapevolezza di chi, come lui, si sia dovuto arrendere all’idea, tangibile e comprovata dai fatti di aver probabilmente fallito: il mondo alternativo che sognava lui e noi profuso dal suono delle emittenti private di La radio è rimasto un ideale sommerso, imploso; il capitalismo ha spazzato tutto e tutti, lasciando in balìa delle onde e dunque alla deriva tutti quelli che non hanno saputo restare in gioco.

Come i minatori del Sulcis, ad esempio, ai quali, lo scorso anno, ha interamente devoluto l’incasso di una serata, un concerto di attenzioni e speranze, condizionato dall’urlo disperato che ha squarciato il cielo e le coscienze, quello di un cinquantenne sposato e con tre figli rimasto improvvisamente disoccupato, un grido di aiuto che Finardi ha poi trasformato in uno dei brani più suggestivi dell’ultima raccolta, Cadere, sognare.

E nonostante che anche i nuovi suoni, realizzati grazie a Giovanni Maggiore alla chitarra, Marco Lamagna al basso, Paolo Gambino alle tastiere, al pianoforte ma soprattutto all’organo Hammond e Claudio Arfinengo alla batteria, ricordino, tanto prepotentemente quanto piacevolmente, le antiche melodie degli inizi rockblues, quelli nei quali nessuno dei sessionisti di oggi era ancora nato, anche in questa circostanza il teatrale Finardi, orfano di una cantante lirica che gli ha lasciato in dote bassi e bemolle, ha saputo riscriversi senza perdere di vista la strada maestra iniziata ad asfaltare, quasi per gioco, nel 1975, l’anno della prima incisione, tempi nei quali, sempre a proposito di contemporaneità, il nostro autorevolissimo concittadino Luigi Tronci sfornava già da generazioni piatti e rullanti per i più prestigiosi batteristi di tutto il mondo: c’è voluto l’italoamericano Eugenio Finardi, che vive da sempre a Milano, a chiedere e ottenere al pubblico quarratino un caloroso e scrosciante applauso da tributare a Luigi Tronci, la divinità del marchio Ufip, un timbro prestigioso, ineguagliato e affascinante in tutto il mondo ma quasi misconosciuto nei suoi ameni paraggi granducali.

Due ore e mezzo oltremodo piacevoli, una serata bella che ha saputo sfidare e vincere Giove pluvio, che la notte prima aveva sconquassato il palco mettendo a repentaglio la manifestazione, ricucita e rimessa in piedi dall’alacre servizio degli addetti ai lavori. Una serata indispensabile, per noi che con la musica di quegli anni e la sua musica siamo cresciuti cullando le sue e le nostre illusioni, spesso indignate, seppur comiche, nell’osservare la fine fatta nel tempo da alcuni compagni d’allora convertitisi in tempo utile al benessere e al selfie e altre purtroppo tragiche per molti di quei compagni rimasti ancorati ai sogni che nel frattempo sono diventati incubi e per questo irrimediabilmente vinti, illusi, derisi, sconfitti.

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