Gentile Direttore,
da giornalista stagionato – ancorché per qualcuno di seconda serie in quanto iscritto tra i pubblicisti – e corrispondente prima del Giornale del Mattino, poi dal 1969 e a tutt’oggi de La Nazione non posso esimermi dal congratularmi con Lei e con il giornale on-line che dirige per lo scoop che ha realizzato mediante l’intervista a Giuliano Sichi, finora targato come “reo confesso” da chi, forse, voleva disporre di un agnello sacrificale che – addossandosi ogni colpa – potesse far indossare una veste candida a chi per troppo tempo ha dormito (o fatto finta di dormire) nella sciagurata conduzione della Comunità Montana Appennino Pistoiese.
Penso che questa intervista – di cui la stampa locale, ricorrendo all’insegna del “quieta non movere,” non ha colto l’importanza – è tale da collocare Linee Future tra le testate che maggiormente e più a fondo riescono a far conoscere le segrete cose della nostra provincia.
A dispetto anche di chi, fanciullescamente o volutamente sprovveduto, è riuscito ad entrare nella neppure tanto ristretta cerchia di chi si ritiene “intoccabile”.
Di nuovo mi congratulo con Lei e con i Suoi collaboratori che giornalmente e indirettamente gratificano anche me per la scelta che dal lontano 1956, trentunenne, feci di accedere al giornalismo.
Mi creda, cordialmente
Silvio Lenzini
Caro collega,
le Sue parole mi gratificano assai. Ma non si metta troppo al di sotto della realtà, solo pensando a chi considera i pubblicisti… “di seconda serie”.
Di gente che si fa forte delle patacche ce n’è sempre di più degli umili consapevoli e carichi di onore.
Prima di essere diventato professionista nel 1995, anch’io sono stato un pubblicista e non me ne vergogno, perché – contrariamente a quel che succede nei partiti, in cui cambia una sigla e cambiano gli uomini – in questo mestieraccio, inviso e perciò pericoloso perché potrebbe dire la verità, la regola non è quella del partito, bensì quella della bottiglia di Chianti: il vino che c’è dentro resta Chianti anche se sopra ci si mette l’etichetta di Barolo o di dopobarba.
Quindi, se uno è un giornalista davvero, lo è ancor prima di diventarlo per una tessera professionale, mi creda. E anche se qualcuno dice che fa un giornalismo pettegolo, di bassa lega e provinciale.
Così ero prima e così sono restato anche dopo – forse perché non ero molto portato, nella vena di anarchismo che mi attraversa, a vivere la parte dell’icona del semplice «impiegato».
Una forte stretta di mano a Lei e speriamo che davvero qualcosa venga alla luce. In questa città-sarcofago (come dico io) e in questa provincia polverosa.
Cari saluti.
Edoardo Bianchini