Lo spettacolo vede schierati, in rigoroso ‘ordine anagrafico’, quattro autentici mattatori della scena: accanto all’autore/regista Franco Branciaroli, il ‘nostro’ Ugo Pagliai (apprezzata la sua performance domenica scorsa al Manzoni per la Stagione Promusica), Massimo Popolizio (che torna nel nostro teatro a tre anni di distanza dal Borkman e reduce dal successo della Lehman Trilogy al Piccolo di Milano, ultimo spettacolo di Ronconi) ed il grande Gianrico Tedeschi. Con questo spettacolo, all’età di quasi 95 anni, l’attore conferma il suo incredibile ‘stato di grazia’, che lo ha visto vincere nel 2011 il Premio Ubu quale “Miglior attore protagonista” per La compagnia degli uomini di E. Bond (diretto da Ronconi) e, da due stagioni, in tournée con Farà giorno.
In occasione di Dipartita finale, il pubblico potrà incontrare la compagnia sabato 28 marzo alle 17,30 al Saloncino Manzoni. L’incontro sarà condotto da Matteo Brighenti, “critico teatrale”.
Dopo l’apprezzata edizione di Finale di partita di Beckett del 2006, Branciaroli da autore firma un testo ascrivibile alla stessa atmosfera dell’assurdo. Lo spettacolo è la storia di tre clochard, Pol, Pot e il Supino, comicamente alle prese con le questioni ultime, cui li costringe Totò, travestimento della morte. E il fine metafisico, quello di un mondo affossato nell’assenza di valori e che affida la propria longevità alla scienza, in assenza di una fede nell’immortalità, è perseguito con strumenti irresistibilmente divertenti.
“Si somigliano molto, Dio e scienza – aggiunge il regista –, più di quanto solitamente si creda. La scienza adesso non limita nessuna azione; non vi è morale o etica perché non c’è più nessun valore assoluto, nessun Dio. Non ci sarà nessuna “natura” da rispettare. Si andrà oltre la “natura”. Ci si difende dall’angoscia cercando la forza più potente: il sapere umano, o meglio, la “tecnica” che ne è conseguenza. Si potrà diventare anche immortali. Tutti i limiti saranno valicati. Immortale non è eterno; qualcuno tenterà di lasciare aperta la porta al divino, al passato di una cultura immensa da cui non si può prendere un definitivo congedo”.
[marchiani – teatro manzoni]