PISTOIA. Sublime, pittorico, cinematografico. Apocalittico. Sono gli aggettivi più indicati e ricorrenti, quasi persecutori, che hanno accompagnato la visione dell’ultima prova della Dolce Vita, balletto-opera massima per la coreografia di Virgilio Sieni che abbiamo avuto la fortuna e l’onore di poter vedere in anteprima assoluta martedì scorso, al teatro Manzoni.
Ne scriviamo solo ora perché la nostra recensione non poteva precedere, per correttezza, deontologia e minacce, la prima nazionale, avvenuta ieri sera, al teatro Argentina di Roma. Ma ora che possiamo finalmente levarci questo macigno emotivo dal cuore, più che dalle scarpe, proveremo a dare corpo, misura e anima a tutte le insinuazioni che abbiamo ricevuto la settimana scorsa, in una platea abitata da non più di dieci persone, coreografo compreso, che hanno seguito attonite, più che ammutolite, i cinque atti della rappresentazione.
Si inizia con l’Annuncio e si arriva alla Resurrezione, passando, in ordine, dalle forche caudine della Crocifissione, della Deposizione e della Sepoltura. Sul palco, a ridosso dello sfondo, Daniele Roccato, musicista compositore autore della colonna sonora, accompagnato da una petulante base collegata alla consolle e dal suo contrabbasso, che maneggia con religioso rispetto e impudica sfacciataggine. Il riff con il quale esordisce e chiude è carico di passione e angoscia, ma con il trascorrere del tempo e dello spazio, nonostante si ripeta fino alla nausea, diventa un gradevole e orecchiabile motivo, che si è convinti di aver già sentito in altre circostanze. È la scuola di Sergio Leone, degli spaghetti-western, sono le immagini, inimmaginabili per noi umani, lasciate da Ridley Scott, quelle che fanno da scenario al Botticelli, al Pollaiolo, a Velázquez, fino a Munch, per poi rinascere e risorgere, proprio come il quinto atto, con Sieni.
Che ha pensato a tutto, per questa parodia, soprattutto a chi affidarne le gesta, il dolore, l’elasticità, la bravura, l’introspezione. Sono in otto. Si chiamano Jari Boldrini, Ramona Caia, Claudia Caldarano, Maurizio Giunti, Giulia Mureddu, Giulio Petrucci, Sara Sguotti e Marjolein Vogels: sono manichini morti, dimenticati sul retro del supermercato in concomitanza di un cambio stagione; nello stand degli elettrodomestici i megaschermi offerti a prezzi stracciati sono rimasti incredibilmente accesi, ognuno su un canale diverso: sport, ci mancherebbe altro, ma anche cronaca, gossip e qualche documentario. Non hanno più vita i bambocci senza sesso e con l’anima rubata, nonostante abbiano pregato e implorato di essere risparmiati; il virus si è propagato con velocità supersonica e ha pietrificato il mondo senza che questo se ne potesse nemmeno accorgere, figuriamoci prenderne le contromisure.
Non c’è pietà, non c’è ristoro, non c’è pace. La dolce vita è un ricordo che si trasforma, nella logica del contrappasso biblico, in vendetta, espiazione, maledizione eterna. Qualcosa, la catastrofe, ha risparmiato, però: legni con i quali comporre bare di fortuna per l’ecatombe o decidere di utilizzarli diversamente per provare a costruire, per i finti sopravvissuti, baracche di fortuna. Gli otto danzattori non si danno pace, né per vinti. Si inizia a rallentatore, con la paradossale commovente agonia di una delle otto protagoniste che il destino ha già eletto a resuscitata, che barcolla, come un pellicano costretto a morire dai liquami inquinanti di un mare una volta limpido, prima di morire. Per la seconda volta.
Sulle labbra dei protagonisti è rimasta tutta la cosmesi adoperata per una delle tante feste; nessuno degli otto sapeva che quella sarebbe stata l’ultima e i rossetti, usati in un’orgia interrotta, si sono trasformati in bavagli, che non hanno consentito di far giungere oltre le urla di paura, dolore. Nessuno, comunque, avrebbe potuto sentirli, ascoltarli, soccorrerli.
In questo passaggio obbligato nel Purgatorio, inconsapevoli di essere stati all’inferno o in paradiso e dunque ignari di sapere in quale direzione andare, la danza è elettrica, spasmodica, chimica. Non c’è armonia: sono gli ultimi lampi di vita, sconnessi, impazziti. Girano attorno a loro stessi cercando rifugio e reciproca assistenza. È un’altra danza delle mani, come molte ne abbiamo già avuto la fortuna di vedere; è un intreccio orgiastico, ma asessuato, perché si intravede l’alba, perché si può ricominciare e loro, gli otto sopravvissuti, abbandonati tutti gli orpelli senza i quali pensavano di non poter essere felici, riprendono il cammino.