DOLORE SENZA TEMPO NELLO «ZOO DI VETRO»

Arturo Cirillo e Milvia Marigliano [foto di Laila Pozzo]
Arturo Cirillo e Milvia Marigliano [foto di Laila Pozzo]
PISTOIA. C’è una parentesi dolorosissima nella rappresentazione dello Zoo di vetro, scritto da Tennessee Williams nell’America che si prepara alla guerra e tradotto da Gerardo Guerrieri, in scena ieri sera, venerdì 30 gennaio, al teatro Manzoni di Pistoia (si replica stasera, alle 21 e domenica, alle 16) per la regia di Arturo Cirillo: l’amore costruito dalla madre (Milvia Marigliano) per la figlia claudicante (Monica Piseddu) con un collega del figlio (Edoardo Ribatto), invitato, di proposito, a cena.

Ma è solo uno step, un’estrazione poetica e idealtipica, un accidente scenografico. La storia parte da molto più lontano e non finisce lì; anzi, non finisce proprio, prosegue, senza via d’uscita, senza soluzione, incartapecorendosi su se stessa e lasciando, nel lettore, quel senso imponderabile di sconforto, che ha segnato quella generazione e continua a marcare a fuoco molte di quelle venute dopo.

Il padre è ormai morto da anni e la madre, che in gioventù è stata una gran bella donna, non si è ancora arresa e non lascia presagire di volerlo fare al tempo trascorso e alle nuove vicissitudini, nemmeno di fronte ad una figlia parzialmente menomata e ad un figlio incapace di realizzarsi, impulsivo e rabbioso ad ogni premura materna, ma incapace di prendere una qualsiasi decisione, se non quella di rimandare a chissà quando lo strappo.

Monica Piseddu e Milvia Marigliano [foto di Laila Pozzo]
Monica Piseddu e Milvia Marigliano [foto di Laila Pozzo]
La famiglia, orfana del padre, vive un’esistenza surreale, senza contatti, tra i sogni e le paure, con un futuro che diventa presente, un presente ormai passato e il passato un solo, grande, enorme rimpianto. Una fotografia senza tempo alcuno, buona per millenni telematici e spaziali, come per squarci medievali, sorretta da quell’insostenibile pesantezza della sopravvivenza che si trasforma in un quotidiano macigno da sobbarcarsi con pesantezza e rinunce sulle spalle.

Non esiste un fuori, né un dentro, non un altro, ma nemmeno i protagonisti, ininfluenti varianti accidentali che servono solo alla storia non tanto per compiersi, ma per continuare a nutrirsi dei suoi limiti, senza un epilogo, né tanto meno un colpo di scena.

Meravigliosa l’asfittica insistenza materna, le sue false preoccupazioni, il suo amore malato e insolente verso i figli; notevole, per uno strategico basso profilo, la tenera inconsistenza della figlia, quella sua velata claudicanza che si trasforma, per un portamento decentrato, in un handicapp sin troppo invasivo.

Uno Zoo di vetro
Uno Zoo di vetro

Patetico e irritante il desiderio, represso e pigro, del figlio di scrollarsi di dosso il peso di una famiglia che non esiste più e cinica, ma diretta e onesta, la franchezza dell’ospite, che riesce, con un semplice coinvolgimento, ad illudere e poi uccidere, i sogni sentimentali della ragazza, una giovane vecchia, una femmina mai nata, una figlia che è stata prima madre.

Fuori luogo, ma perfettamente incastonate nell’alveo degli abbonamenti, alcune risate fragorose del pubblico, terrorizzato, forse, più che divertito, dall’idea di scoprire di vivere, da sempre, esattamente nello stesso identico modo degli attori, e ritrovare, sulla consolle della sala da pranzo delle proprie abitazioni, lo stesso zoo di vetro.

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