PISTOIA. Il dibattito sull’energia, in Italia, al pari di tante altre questioni complesse, soffre ed ha sempre sofferto della mancanza degli elementi fondamentali per il confronto e l’analisi.
Come, mutatis mutandis, nel calcio quando mancano lo stop ed il passaggio. Prove provate le dozzinali idiozie in occasione del recente referendum del 17 aprile.
Due esempi di bufale e allarmismo infondato circa le trivelle: la sovranità energetica e i posti di lavoro.
Tutti sanno che il mercato gli idrocarburi estratti in Italia non sono “nostri” ma delle big oil che ne hanno la concessione: petrolio e gas sono cioè immessi sul mercato, vengono quotati come le altre commodity (principali indici per il petrolio: Wti, West Texas Intermidiate, e Brent) e come gli altri paesi anche noi ci approvvigioniamo, manco a dirlo, proprio sui mercati.
Del resto già da marzo, con trasmissioni e servizi televisivi, era di pubblico dominio che le piattaforme petrolifere sono impianti automatizzati, dove non lavora nessuno ma passano sporadicamente dei supervisori altamente specializzati.
Simili stupidaggini, in cui inciampano e sono inciampati trasversalmente opinionisti di ogni ordine e grado, non mancano e non mancarono nemmeno sul dibattito tra nuclearisti e antinuclearisti.
Trent’anni fa una nube radioattiva si alzò da Cernobyl, allora un nome impronunciabile, e si diffuse anche in Italia, con risvolti ancora curiosamente – si fa per dire – attuali: i cinghiali al cesio 137, un caso del 2013, in Piemonte. Numerosi capi, ritrovati pieni di radioattività oltre ogni limite, vennero abbattuti in un crescendo di preoccupazione; il web non lesina ottimi approfondimenti e cronache.
Trai referendum del 2011 ce n’era anche uno sul nucleare (più due sull’acqua e uno sul legittimo impedimento), e ad onor del vero si ha ragione di ritenere che se quasi 27 milioni di italiani andarono alle urne fu principalmente per l’emozione e la paura successive alla tragedia giapponese di Fukushima Dai-ichi.L’inaudita onda anomala dello tsunami causato da un violento terremoto segnò il più grande disastro nucleare della storia e insinuò in molti paesi il dubbio sull’opportunità di uscire dal nucleare.
L’energia nucleare è un treno con mille carrozze sparato a velocità supersonica: non si può fermare di botto, servono dei tempi tecnici. E molti stati, con Fukushima, presero la palla al balzo per pianificare l’abbandono dell’atomo.
Certo, parliamo di un tema altamente ideologico, dove la componente ideologica è del tipo: possiamo accettare una tecnologia che è sì fallibile come tutte le altre, ma i cui eventuali incidenti vanno oltre i limiti geografici dell’incidente e del tempo immediato?
Al netto di ciò basterebbero poche osservazioni ragionate sull’attuale contesto del mercato elettrico europeo per aver chiaro quanto il nucleare sia irreversibilmente improponibile, tanto in Italia quanto nel resto del vecchio continente.
Nel dopoguerra Eisenhower capì, e lo comunicò con la proverbiale espressione degli “atoms for peace”, che la filiera delle armi nucleari, se chiusa, con la generazione di elettricità per scopi civili, avrebbe garantito accettabilità sociale ed enormi economie di scala.
Così fu. L’Italia nei ’60 era all’avanguardia, addirittura con tre tecnologie distinte ma nel 1987, con la vittoria del fronte antinuclearista al referendum post Cernobyl, il governo di allora andò addirittura oltre il mandato popolare, che chiedeva lo stop di nuove centrali.
Fu chiusa la centrale di Latina mentre quelle di Trino Vercellese, Garigliano e Caorso non ebbero il permesso di ripartire dopo le manutenzioni (Montalto di Castro era incompleta e venne riconvertita a policombustibile): insomma, è un po’ il segreto di Pulcinella, senza dubbio scomodo imbarazzante, ma con quel referendum si chiuse la stagione italiana del nucleare… perché sostanzialmente non era mai effettivamente decollata!
Il caso Ippolito costituisce uno dei tanti indizi che provano quanto le lobby del petrolio riuscirono a bloccare, nel tempo, l’industria elettronucleare italiana.
Nel dopoguerra, poi, c’erano i monopoli verticalmente integrati, storicamente nazionalizzati per l’universalizzazione del servizio.
Nel senso che la nazionalizzazione dell’elettricità – in Italia imposta dai socialisti nel ’62, mediamente dieci anni dopo il resto dell’Europa – doveva portare la luce a tutti, alle solite condizioni, anche dove non c’era profitto, e questo avvenne.
Invece, per fare un esempio, Publiacqua, ugualmente un monopolio, realizza infrastrutture solo se ci sono più di 2000 abitanti equivalenti, lasciando che paesi come Sammommè si arrangino autonomamente.
Oggi, a differenza di allora, c’è un mercato elettrico, fortemente competitivo e dinamico e intrinsecamente incompatibile con la rinascita del nucleo. Vuoi per i costi di sicurezza, che da soli mettono questa tecnologia fuori mercato (Areva sta sprofondando, facendo precipitare Edf ed i bilanci dello stato francese), vuoi per il funzionamento non flessibile dei reattori, che viaggiano sulle 8000 ore equivalenti annue e necessitano di vendere esattamente tutta l’elettricità, preferibilmente a prezzi fissi e concordati.
[Lorenzo Cristofani]
Ciao Lorenzo, come sempre un ottimo articolo e con un filo conduttore ben leggibile. personalmente dubito che la maggioranza della gente sappia quello che va a votare in occasione dei referendum, sopratutto perchè invece di stare sul punto, che di solito è ben definito, il dibattito (chiamiamolo così) da noi assume immediatamente tinte ideologiche, isteriche, dove i fronti in campo tentano solo di spaventare la gente. Questo lo si è visto molto bene sul referendum “trivelle” dove aimè, gli ambientalisti (legambiente in primis) perseverano pervicacemente nei soliti errori che nei decenni hanno disintegrato politicamente i verdi italiani rendendoli irrilevanti: ovvero nell’ideologizzazione delle loro battaglie che finiscono per essere infarcite di dogmi e mezze bufale, che allontanano, piuttosto che avvicinare le persone alle questioni legate a territorio e ambiente.
La realtà è che:
– siamo dipendenti dalle risorse fossili
– l’Italia non ha uno straccio di politica energetica
– nessuno, nemmeno il più sfegatato ambientalista, rinuncia alla mobilità e.. fatalmente un treno lo dovrà prendere, un aereo idem, un bus anche.
Quindi bisognerebbe che il Governo chiarisse una volta per tutte quale strada vuole perseguire, spiegarlo chiaramente e adottarre le misure conseguenti per l’attuazione. Abbiamo nel mondo l’esempio della Norvegia, che ha il record delle auto elettriche ma trae enormi profitti, nel rispetto dell’ambiente , dal petrolio.
leggere per credere:
http://www.ilpost.it/2014/01/30/petrolio-norvegia-faruk-al-kasim/
http://www.improntaunika.it/2016/01/la-norvegia-paese-del-petrolio-e-delle-auto-ecologiche/
…e una curiosità http://news.sky.com/story/1680496/1-fuel-cell-creates-electricity-from-urine
…solo un italiana poteva pensarlo e farlo…
Massimo Scalas