UNA VOLTA, anni fa, ho scritto che davvero la scuola è “maestra di vita”, molto più che la storia.
La scuola è, infatti, quel “sano” ambiente educativo in cui le generazioni, per le quali essa è istituita con il fine di “sviluppare il loro senso critico” della realtà, imparano lentamente, ma progressivamente e inesorabilmente, a chinare la testa e ad assuefarsi al potere con perfetto spirito gregario. Che in termini scelti e solenni è definito dalla altisonante espressione di «sacro rispetto delle istituzioni»…
Io, che, per motivi anagrafici, ho frequentato scuole di chiaro imprinting fascista, un mio spirito critico personale me lo sono pure creato e, come vede chi ci segue, sono, molto spesso o quasi sempre, critico con quasi tutti. Insomma un rompiballe.
Ho avuto presidi fascisti, post-fascisti, democristiani: e sono riuscito, non senza strappi e strattoni, a viverci, a conviverci e a sopravviverci. Ma la razza peggiore con cui ho dovuto fare i conti è stata quella dei «presidi democratici», prima comunisti del Pci e poi, a forza di cambi di pelle (del resto quella sinistra, oggi, ha perfino una giovane deputata il cui cognome dice tutto, Quartapelle!), Pd.
Questi, scusate tanto, li ho trovati i più discutibili: quanto più impreparati, tanto più autoritari e in veste di veri e propri kapo di partito, usciti – come quelli di Aushwitz – dalle stesse file dei rastrellati e dei deportati, per poi finire sotto la tavola degli Dèi ariani a raccattare gli ossi caduti dalle loro portate, convinti di poter tenere a bada, con l’arroganza, quella classe sociale di paria da cui loro stessi provenivano, l’inconsistente (dopo il 68) categoria dei prof. detentori del «diritto di reddito di assistenza sociale» (un po’ come quello di cittadinanza oggi), spesso scarsamente preparati, più o meno ideologizzati (e non dal Capitale di Marx, ma dalla Lettera a una professoressa di don Milani), ma soprattutto, grazie a quest’ultimo testo sacro dei Veda scolastici, «pronti ai somari passare, per grane non avere».
Non c’è peggior nemico del popolo di un popolano che sale la scala sociale e si trova in mano una spada e una mazza, tanto che può – praticamente senza rischio di incorrere in sanzioni – fare liberamente agli altri quello che non vorrebbe fosse fatto a lui. Lo zio Stalin ce lo ricorda ogni giorno.
Perché più o meno impunemente? Perché in tutta la storia scolastica italiana non ho mai visto – almeno per quel che ne so – un ispettore (?), periferico regionale o centrale nazionale, prendere un preside, pur demente e coglione fino al deficit mentale, e fargli, come si diceva da studenti, un culo come un paiolo o come una capanna o un bronzo equestre alla Marco Aurelio del Campidoglio.
I sindacati, poi, li hanno blanditi, coccolati, cullati e inseriti, sempre come kapo, nel gregge dei deportati (= leggi professori) da loro distinti solo per la fascia al braccio, mastini del potere di pietosi ministri e/o minestre Fedeli del cavolo, reggitori dell’ordine non costituito, ma precostituito.
Dalla carriera direttiva, i presidi sono passati (a scatto) a quella dirigenziale, se non ricordo male, sotto il Pcus del ministro Berlinguer; e si sono ubriacati del vino inacetìto della autonomia: e pensare che i più avevano vomitato, pisciato e cacato sull’autarchia mussoliniana! Forse perché preferivano la possibilità di decidere a loro piacimento, secondo il significato di autonomia.
Così, zuppi di acetone come la spugna passata sulla bocca di Cristo in croce, non si sono resi conto del fatto che, nell’immaginario collettivo, contavano (e contano) quanto il 2 di briscola: tant’è che non passa anno che qualcuno di loro (orgogliosamente abituato a varare dei Paf, Pef, Pif, Pof e Puf[fi] come minimo lassativi e come massimo pericolosamente dissentèrici) non pigli, come si dice, «un paio di manate sul muso».
E con tutta la democrazia che li permea (una democrazia che sembra essere come il sangue infetto dello scandalo della famiglia Marcucci) fanno sì che i “giovini virgulti” che crescono, destinati a trovare un posto solo per democratica raccomandazione (se tutto va bene) e che escono dalle scuole senza sapere né leggere né scrivere né fare di conto, una cosa la sappiano fare benissimo: chinare prontamente la testa al potere, mostrare, in maniera incondizionata, tutto il «sacro rispetto delle istituzioni».
Presidi, in Italia, si diventa per cooptazione: come i dirigenti del Pcus o del Partito Comunista Cinese. Qualcuno passa anche dei non ossequienti: ma solo per dimostrare alla plebe che la repubblica premia i meriti…
Sono lì, i presidi, solo perché qualcuno ce li ha fatti arrivare, facendo loro superare tutti i gradi della «massoneria scolastica», che parte da terra (con la scelta discrezionale di un satrapo che ti nomina vicesatrapo) ed arriva in cielo come la famosa scala biblica degli angeli.
Ma su ogni scalino di quella ascesa al Paradiso sta scritto, a chiare lettere d’oro massiccio, «Orsù, da bravo! China la testa, china la testa, china la testa, china la testa!».
O, più semplicemente, come in un famoso film di Sergio Leone (1971): Giù la testa, coglione!
Edoardo Bianchini
[direttore@linealibera.it]
Diritto di critica
[e di giurare di dire la verità…]
Vedi anche: https://www.linealibera.it/irriverenze-santi-marroncini-lascia-la-scuola/
One thought on “due di briscola. LA SCUOLA MASSONICA DEL «GIÙ LA TESTA, COGLIONE!» – 7”
Comments are closed.