«OMNES EODEM COGIMUR», FINIAMO TUTTI NELLO STESSO POSTO
NEL MOMENTO in cui Vittorio Feltri ci dice che lui ha 74 anni e ormai non gli resta molto da vivere, ci ripropone una verità che perlopiù tende a sfuggirci: nessuno, su questa terra, pensa di essere mortale.
Così George Soros mangia quattrini, ma caca cacca come tutti noi e non sarà eterno nemmeno con tutto il denaro che ha in corpo; gli Eloìm (tradotto dai biblisti cattolici come giudici, ma in ebraico dèi) nella Bibbia tengono un’assemblea e si scontrano fra loro, mentre il più saggio avverte gli altri: «Attenzione, perché anche voi, come gli uomini, morite…»; Orazio ci avverte che «omnes eodem cogimur», finiamo tutti nello stesso posto; perfino il Papa-bis avverte che «il sudario non ha tasche» e che dietro, nell’ombra, non ci porteremo nulla. Ve la ricordate la novella verghiana di Mazzarò? Si intitola, molto eloquentemente, La roba.
Eppure gli uomini (ma anche le donne) non capiscono una “mazza di Aronne”: e, imperterriti, tutti continuano, ciechi fideisti, a credere che loro saranno eterni; e per questo rompono i cabbasisi agli altri, tutti concentrati a correre sul binario del pensiero unico, quello che fa del denaro, del potere, del sopruso, della soverchieria il centro (inutile, se dio vuole) della propria inutile esistenza.
Mi vengono in mente due aspetti che ho vissuto in prima persona e che qui vi riassumo; due affreschi illuminanti che mettono sotto la lente d’ingrandimento della nullità dell’essere umano (?) le figure di due grandi – meglio, forse, enormi nel senso etimologico di “fuori della norma” – donne giudice.
Il primo evento risale al tribunale civile di Pistoia e agli anni 90, allorquando, in una causa del lavoro contro Il Tirreno, dovetti sentirmi dire che non avevo diritti di riassunzione perché il fatto di essermi rivolto all’allora Pretore del lavoro solo a due o tre giorni dalla data di prescrizione dell’azione (tipo all’88° giorno dei 90 utili stabiliti dalla legge) era prova sufficiente a far ritenere al collegio (in quel caso preseduto dal dottor Pagliuca) che “io chiaramente non avevo alcun interesse a esercitare i diritti di riammissione al posto di lavoro” e che quella domanda di riammissione era solo una sorta di “furberia avvocatesca”: ma se la norma stabilisce un termine, chi è il giudice per allungarlo o accorciarlo? Il tutto fu relazionato e pronunciato da bocca soave di donna-giudice di assoluta fede politica di sinistra extraparlamentare. Prosit!
Il secondo evento è fresco di stampa e risale al gennaio scorso. Stavolta la scena si sposta nel tribunale civile di Firenze, dove un esimio collegio è chiamato a esprimersi sul fatto che, in un procedimento che mi riguardava, un documento che doveva essermi notificato tassativamente al più presto possibile e comunque non oltre 30 giorni da una determinata data, risulta essermi stato inviato, sì: ma dopo oltre 200 giorni dalla data fissata come termine perentorio dalla legge. Così il mio ricorso per la pronuncia di nullità del procedimento viene respinto perché… “in fondo l’atto mi era stato notificato: e dunque… che altro volevo?”.
Applausi, diceva una canzone dei Camaleonti. Questa è la realtà dei fatti e della giustizia come percepita dal quisque de populo, il cittadino comune, in Italia. E questo è il primo intervento della nuova rubrica inaugurata e preannunciata dal Numero 0 il 19 marzo scorso, San Giuseppe 2019.
Come faccio, perciò, io, semplice cittadino, a fidarmi dello stato (minuscolo) e della legalità (minuscola) non rispettata, in primis, proprio da chi dovrebbe esserne il paladino o la paladina?
Non sarebbero più efficaci un bel Codice di Hammurabi o le Leggi delle XII Tavole piuttosto che l’amministrazione e i giudici “terzi imparziali”? Di fidarmi, me lo imponete per legge, per decreto o per condanna? Ma, dentro alla mia testa, chi c’entra? Un giudice che non applica nemmeno la legge secondo l’articolo 12 delle Preleggi, dove si legge che «Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore»? O un giudice alla Mattarella che dichiara l’illegittimità di un parlamento (minuscolo) da cui si fa poi eleggere capo dello stato? Quale capo e quale stato, scusate?
Quando fra Cristoforo va da don Rodrigo per aiutare Renzo e Lucia, ma viene insolentito da quell’emerito stronzo di signorotto spagnolo, il focoso cappuccino esce con una frase molto illuminante: «Avete colmata la misura; e non vi temo più». «Come parli, frate?…» (dice don Rodrigo incazzato). «Parlo come si parla a chi è abbandonato da Dio, e non può più far paura» risponde il frate (Cap. VI).
Tutte le strutture dello stato sono quella zona grigia – di cui parla Levi in I sommersi e i salvati – che contribuisce comunque a proteggere sopruso e privilegi di una casta estesa in ogni direzione, tentacolare come una piovra e viscida come il catrame che un tempo si spargeva sulle asfaltature delle strade.
E torno all’uovo: «omnes eodem cogimur», finiamo tutti nello stesso posto! Dunque, perché tremare di timore e di rispetto, per chi, in prima persona, non ha né timore né rispetto per se stesso e poi per quel popolo che lo paga lautamente e nel cui nome amministra una giustizia farlocca, duttile e malleabile come l’oro di Bologna?
«Parlo come si parla a chi è abbandonato da Dio, e non può più far paura»!
[Edoardo Bianchini]
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