E MO’ BASTA. SPORT, GLI ERRORI PIÙ COMUNI

Genitori invasivi...
Genitori invasivi…

PISTOIA. Tra gli errori più gravi e frequenti nel mondo dello sport ve ne sono due che parrebbe semplice non ripetere (della serie sbagliare è umano, perseverare diabolico, quindi…), ma che invece si perpetuano (talvolta in modo subdolo, per propri malevoli fini).

Il primo: i genitori, spesso trasformati in dirigenti-volontari (manna per ogni società sportiva dilettantistica), che si avvicinano a una disciplina sportiva trascinati dalla passione dei figli e che finiscono per essere deleteri. Come? Quando? È presto detto. Quando il genitore non tiene il giusto distacco dall’erede, non valutandolo alla stregua di tutti gli altri atleti, piccoli o grandi che siano.

Ecco che su tutti i campi di tutti gli sport possibili e immaginabili, il padre, ma pure la madre (sovente le donne “sportive” sono ancora più cattive degli uomini) urlano, sbraitano, incitano il bambino o il ragazzo a darci dentro, persino a picchiare l’avversario o ancora a non seguire i dettami dell’allenatore, ma i loro, che da fuori, chissà perché chissà come, vedono e capiscono sempre meglio lo svolgimento dell’incontro.

Chi ha avuto la sventura di assistere a un incontro di bambini, ha dovuto fare i conti con questa figura di genitore “animalesco” (e ci scusino gli animali portati a paragone, perché hanno senz’altro maggiore sensibilità rispetto a certi umani). Quel tipo di genitore (ma attenzione anche ai nonni, sovente considerati più benevoli e invece…) sfoga le proprie frustrazioni sul pargolo, pensa di avere il fenomeno in famiglia (gli occhi s’illuminano di euro), ritiene che l’ambiente ove giochi (e maturi?) sia sempre stretto, strettissimo, non adeguato alla grandezza del discendente.

Il secondo grave e frequente errore: entrare a far parte di un consiglio societario, a prescindere dai figli (possono anche non esserci), pensando non al bene generale, ma a quello particolare. Ci spieghiamo. Chi riveste una carica, un ruolo all’interno di un sodalizio sportivo deve sapere fare gioco di squadra. Non può, ad esempio, permettersi di avere simpatie (tra gli stessi dirigenti o fra i giocatori) o cercare, pian piano, di fare le scarpe al prossimo per crescere come impegno e considerazione. Meno parla, più lavora, meglio è.

... e risultato assicurato!
… e risultato assicurato!

Se proprio non si resiste al piacere del dialogo – definiamo così quel “chiacchiericcio” per sentirsi grandi, specie al bar dinnanzi agli amici –, d’obbligo parlare bene, di tutti, indistintamente, in particolare del tecnico, figura tra le più importanti e delicate dentro a un club. Parlar male, alle spalle appunto, di un trainer significa delegittimarlo agli occhi dell’altro: guai a farlo (anche in buonafede), i danni sarebbero enormi.

Dell’allenatore della propria squadra si parla soltanto bene. Si lascia operare in santa pace, si giudica semmai a fine stagione (e non c’è bisogno di litigare): si guarda alla maturazione degli allievi, alla loro crescita, in fatto di carattere, comportamenti e risultati e poi si prende una decisione: continuare o terminare l’esperienza. Ma se parlo male di un coach, per di più con un atleta commetto uno sbaglio sesquipedale: consento a quest’ultimo di avere delle scusanti. E attenzione se si parla a un uomo o a una donna.

Le reazioni sono differenti. Gli uomini, solitamente, tendono a risolvere i problemi in fretta, confrontandosi, arrivando pure allo scontro verbale e fisico e poi riappacificandosi in breve tempo (o perlomeno cercando di farlo). Le donne, al contrario, tendono ad assimilare, evitando sceneggiate. Ma assimila assimila, creano una ragnatela: alla fine della stagione, per il malcapitato coach, non si potrà che restarne incastrati, in attesa che il ragno venga, felice, a banchettare.

Meditate, gente, meditate: più facile a dirsi che a farsi.

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