ELIO DE CAPITANI, AMBULANTE DI CAPOLAVORI

Morte di un commesso viaggiatore
Morte di un commesso viaggiatore

PISTOIA. Non capita spesso di assistere ad uno spettacolo teatrale parecchio movimentato e popolato, inoltre e non sapere, al termine della rappresentazione, più di tre ore, utile sottolineare, a chi dei vari protagonisti consegnare la palma del migliore.

Certo, in questo caso, e cioè Morte di un commesso viaggiatore, in scena ieri sera, stasera (alle 21) e domani, primo maggio, alle 16, al teatro Manzoni, ultimo appuntamento di un’altra stagione da applausi, la lode, oltre al dieci che consegniamo indistintamente a tutti, non possiamo che porgerla nelle mani di Elio De Capitani, regista e protagonista di questo inflazionatissimo riadattamento, tanto al teatro, quanto al cinema, di Arthur Miller.

Una commedia senza tempo perché i tempi del dramma di Willy Loman sono quelli che perseguitano i sogni americani e gli incubi cosmici, di riuscire cioè, dal nulla, a diventare Presidente degli Stati Uniti d’America e, con la stessa possibile naturalezza, piombare nel baratro, senza avere la forza per come trovare appigli lungo le pendici infernali capaci di arrestare la caduta nel vortice e consentire così di risalire.

La storia è nota, perché è quella di un commesso viaggiatore che dopo 36 anni di onorato servizio trascorsi a vendere, in lungo e in largo, per gli States, sente la necessità di posare l’autovettura in garage e ritirarsi, per i pochi anni che lo separano dalla pensione, nell’anonimato selvaggio di un ufficio lontano dal traffico e dall’ansia prestazionale. La sua stanchezza coincide però con un momento di grande inflazione e a nulla serviranno le implorazioni rivolte al principale, che coglierà anzi l’occasione di liberarsi del tutto di questo agente ormai non più prolifico e anche assillante.

Sullo sfondo del palcoscenico, però, non c’è l’Arizona, né i grattacieli di New York e nessun elemento che possa indurre lo spettatore a specifiche individuazioni territoriali e dunque culturali. Sullo sfondo, anzi, in primo piano, scaraventato negli occhi e nell’animo del pubblico, la fragilità umana in parecchie delle sue caratteristiche più note: l’invidia sociale, la bassezza maschile, che si concretizza in un goffo superomismo nella disperata, folle e ansiogena ricerca di una dignitosa sopravvivenza, che finisce per coincidere con la felicità, così vicina e nonostante tutto, così irraggiungibile.

Ci sono i figli, però, forti e belli, che sapranno come riscattarlo da una vita di stenti e di ordini subìti ed eseguiti, due aitanti giovanotti cresciuti da una madre che ha dato, in parti perfettamente uguali, tutto il proprio amore al marito e ai suoi eredi. A patto che ne abbiano voglia e capacità, però, altrimenti, il fallimento si decuplica e la resurrezione si trasforma in un’altra nuova sconfitta e la morte diventa l’unica arma possibile con la quale riuscire a sottrarsi dalle granfie del fallimento.

Questa è la storia, ma le vicende non si narrano da sole. Hanno bisogno di traduttori, interpreti, rappresentanti, attori. A tutto il resto ci pensano, in questa circostanza e lo fanno divinamente, quelli della compagnia del teatro milanese dell’Elfo, che sfoderano, indistintamente, una vis da applausi a scena aperta. Ad iniziare da due ragazzoni che di crescere non ne vogliono proprio sapere, Biff e Happi, Angelo Di Genio e Marco Bondaei, donnaioli e idealisti che nonostante i trenta già superati, non riescono in alcun modo ad affrancarsi dalla piramide familiare costruita dal padre, sotto la quale hanno finto di costruirsi ognuno il proprio futuro e fallendo miseramente.

E poi Vincenzo Zampa, Andrea Gerani, Federico Vanni, parenti visti come serpenti, Alice Redini e Vanessa Korn, le due prostitute, con un lato b, la prima, da incorniciare sulle copertine dei rotocalchi e Linda Loman, Cristina Crippa, la moglie, la madre, l’amica, la schiava, la massaia, la chioccia, l’attesa, la speranza, il coraggio, la perseveranza, l’ironia, la provvida cecità, l’amore. La classe. Immensa. Non ce ne vorranno certo gli altri, men che mai suo marito Elio De Capitani, se chiudiamo questa recensione spendendo parole di ringraziamento per lei, la mattatrice furiosa di questa commedia.

Un’interpretazione, la sua, che giustifica, con gli interessi, più di 180 minuti di attenzione ad uno spettacolo che ha il sapore di un film, seppur scevro da qualsiasi orpello scenografico e nonostante si muova, per l’intera durata della rappresentazione, su un piano virtuale che confonde, sistematicamente, l’avara realtà, i sogni irrealizzati, la memoria come incubo e la tragedia come filo conduttore.

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