PISTOIA. Furono molti i tedeschi nati nelle immediate vicinanze della fine della seconda guerra mondiale a vivere una vita, sin dai primi giorni, dolorosa. Per due motivi: il primo è che molte città della Germania, nel 1945, dopo la lezione militare delle truppe sovietiche e americane, erano rase al suolo, Monaco compresa; il secondo, assai più complicato e meno lampante, ma proprio per questo di maggior difficoltà interpretativa, è che quella miseria, desolazione e morte dipesero unicamente dalla follia nazista, un vanto germanico.
Rainer Werner Fassbinder, regista, teatrale e cinematografico, sceneggiatore, scrittore, attore, drammaturgo, calza a pennello l’immagine introduttiva, ma a differenza di quasi tutti i suoi coetanei e conterranei, seppe estrarre da questa fonte di incalcolabile dolore non tanto la propria resurrezione, quanto la sua fine.
Di questo – e di molto altro – han parlato, ieri sera, nella Casa della Piazzetta, a Pistoia, in piazzetta Santo Stefano, Anna Richat e Maurizio Braucci, introdotti e alternati da Federica Lukkesini – uno dei primi appuntamenti di Arca Puccini 2014, un anno con tredici lune – tre persone altamente qualificate e in grado di introdurre la platea, particolarmente preparata, nel mondo, per molti versi ancora inesploso, di Fassbinder, uno dei personaggi più controversi della Germania degli ultimi 70 anni.
Figlio di un medico (abortista) e di una traduttrice, Fassbinder cresce in una sorta di comune post bellica, ma non nell’affetto della rinascita, quanto nell’indifferenza della sopravvivenza. A soli otto anni il bambino provvede, in definitiva, a se stesso, crescendosi, con il filtro, vigile quanto si voglia, ma intermittente, di una nonna. Il suo sogno è fare il regista cinematografico e nonostante le incomprensioni del mercato a lui contemporaneo, che non riesce a catalogarlo in virtù della sua altalenante sospensione morale e critica, Rainer Werner Fassbinder diviene uno dei più importanti soggetti culturali della Germania della rinascita, in continuo attrito con gli schemi resurrezionali. Certo, il riconoscimento totale e definitivo, fino all’esaltazione della sua lungimiranza, avviene solo dopo la sua morte, per overdose, a soli trentasette anni.
Un periodo cronologico decisamente avaro di opportunità che con il prodigioso Fassbinder incontra però l’eccezione: sforna circa 40 films, inanella a ripetizione rappresentazioni teatrali e riesce, puntualmente, ad inimicarsi praticamente tutti, divertendosi con la creazione di corto e lungo metraggi con i quali spiazza, sistematicamente, il pubblico. La sua vita cinematografica e teatrale è un concentrato di training autogeno nazionale e una serie di suggerimenti per come liberarsi dal rimorso incancellabile del nazismo, uno sguardo, in discretissimo, sulle relazioni sentimentali, etero e omosessuali, dove è il censo a segnare il dominio e la predominanza, un attenzione maniacale, seppur supersonica, dei dettagli con i quali si costruisce il cinema e il teatro, fatto di elementi quotidiani, onnipresenti, invasivi e omissibili.
Un’interessantissima lezione su Fassbinder, quella di ieri sera, che ha avuto il pregio, molto fassbinderiano, di tornare indietro e mettersi a rileggere.