“FATHER AND SON”, IL TEMPO PER I FIGLI

Father and son
Father and son

LA CANZONE è stata scritta da Cat Stevens, nel 1970: un trionfo generazionale. Il film, invece, di Kore-eda Hirokazu, è del 2013, troppo giovane per essere celebrato ed entrare, come il motivo del cantautore inglese, nella leggenda, ma farà presto parte, indelebilmente, del gotha delle migliori pellicole di sempre, perché Father and son (in questi giorni al cinema Roma di via Laudesi, a Pistoia), i numeri e la delicatezza del capolavoro li ha tutti.

I genitori di Keita, un professionista di successo che ha delegato alla moglie cure e affetti domestici, ricevono dall’ospedale dove sei anni prima è nato il loro bambino una telefonata che li avverte che, a seguito di uno scambio di neonati, il piccolo che stano crescendo non è loro figlio, ma quello di un’altra coppia, che a loro volta stanno crescendo il loro.

Le famiglie, come da protocollo, si incontrano per stabilire come e quando riprendersi, ognuna, il proprio legittimo. Iniziano con il prestito della prole nei fine settimana, ma la differenza sociale, economica e culturale tra le due famiglie è troppo grande perché i figli scambiati non subiscano, rispettivamente, traumi. Soprattutto perché Ryota, il professionista cresciuto a suon di sacrifici e successi, è diametralmente opposto a Yudai, l’altro papà, un umile commerciante, con caratteri anche infantili, che però trascorre quasi tutto il proprio tempo libero nella cura, ludica, dei figli. Lo scontro è violentissimo, ma tenero e i due bambini testimoniano con i loro silenzi e i loro perché i due mondi.

Una testimonianza forte e feroce, sussurrata con l’eleganza e la grazia orientali sulle note di Bach, della nuova frontiera della paternità. Un film che resta sospeso, senza schierarsi mai, senza ridurre nemmeno per un solo attimo le intensità della vicenda. Una pellicola che entra nell’animo degli spettatori in punta dei piedi, ma trovando presto e comodamente spazio tra gli anfratti delle passioni, dei rimorsi, dei punti sospesi. Una storia senza alcun effetto speciale, minimale, con una bella fotografia, ma non certo indimenticabile, senza piani sequenza; un film con l’indispensabile per andare sul grande schermo e tutti i requisiti per venire ricordato a lungo.

Una produzione che è, soprattutto, un poster, un messaggio, un avvertimento: non bastano case ultramoderne collocate al riparo da sguardi indiscreti in lussuosi quartieri borghesi dove l’anonimato è una garanzia; né servono giochi a ripetizione, lezioni private di piano, vestiti alla moda e tutti i comfort con i quali i genitori sono convinti di rendere felici i propri figli. A loro, ai piccoli, che possono essere o non essere sangue del sangue di chi li sta crescendo, serve tempo, il tempo dei papà. E il loro amore, il più grande, faticoso ma redditizio investimento.

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