PISTOIA. È la storia di Caino e Abele, forse, o quella del peccato originale, che con il tempo e la sua evoluzione ha regalato piaceri e felicità effimere, tipo il telefonino. Azzardiamo ipotesi, nella piena consapevolezza di correre il rischio di far capire a chi legge che chi c’era non ha capito assolutamente nulla, ma stavolta ci corre l’obbligo di fermarci al cospetto della bravura dei due protagonisti, Gaetano Bruno e Francesco Villano, e aggiungere poco altro alla loro Genesi Quattrouno, breve, intensa e fisicissima rappresentazione andata in scena, ieri sera, al piccolo teatro Bolognini, anticipazione forse un po’ troppo idealista della nuova rassegna targata Atp che allungherà il cartellone del Manzoni nella sua meravigliosa dependance di via del Presto.
Lo spazio è ridottissimo: sulla scena incombe un albero capovolto, o forse un albero già nato, ma visto da una prospettiva particolare, dalle viscere, dalle radici. Sotto, una fiera, che pare dormire profondamente, come se fosse in letargo, tanto che un suo consimile, che lo osserva impietrito fuori dalla gabbia mentre la gente inizia a riempire la sala, dopo aver provato a stuzzicarlo, lo crede, temendo, morto.
Invece è vivo, sveglio, stava solo giocando e allora ha inizio la lotta animale per il dominio: gesti primordiali si confondono con cenni convenzionali perfettamente identificati da diversamente abili. Lo spazio è ridottissimo: sotto i rami-radici di questo albero capovolto, o prima dell’inizio, della fine, i due protagonisti devono per forza di cose recitare gattoni. Del resto, non parlano, emettono suoni gutturali e si invitano vicendevolmente a rivolgere lo sguardo verso est: c’è luce, probabilmente, laggiù, o è quello il posto dove ha dimora la caverna e dove si daranno appuntamento, meravigli ondosi di non andarci insieme.
Ognuno dei due ha un fratello, che sta aspettando: sono due fratelli forti, coraggiosi, scaltri, ma non ci sono. Strano, il mondo è iniziato da poco, difficile che abbiano trovato il tempo e il modo per come avventurarsi altrove. Le due scimmie continuano, giocando, a misurare la pressione altrui.
Lo spazio è ridottissimo, non solo superiormente. Alcuni rami secchi, che non sono scarti di quelli sospesi, ma macerie di chissà quale universo imploso, recintano circolarmente la scena: fuori è un’altra epoca; si sta in piedi, ci si rincorre, si parla, si dicono anche una serie di parole letteralmente incomprensibili che non fanno che da corollario al cuore del problema, che non riusciamo però a percepire.
Qualcuno in sala ride, rumorosamente. È vero, i due protagonisti, qualche volta, ricordano l’incomunicabilità di Ficarra e Picone. Ma questa è un’altra nostra deduzione e non vorremmo che generasse irritazione, se fosse una nostra semplice folgorazione, casomai dettata dalla nostra necessità di catalogare all’interno di recipienti che sappiamo maneggiare il cosmo del teatro.
I tempi, però, al di là di ogni ragionevole considerazione, sono quelli giusti, ideali: finiamo anche noi nel farci risucchiare dall’incomprensibilità e ne giustifichiamo l’assurdo. Ma è solo una sensazione, epidermica: appena ci dissociamo dall’aspetto emotivo, ripiombiamo nel dubbio di non aver capito. Nulla.