SE GIÀ SI PARLA di anti-trumpismo, proprio come parlavamo di anti-berlusconismo, significa che siamo alle solite e che, soprattutto, sono sempre i soliti.
La sinistra americana impazza, coadiuvata dai giornaloni autorevoli a stelle e strisce, e tutto questo gran chiasso lo fa esclusivamente per coprire un dato oggettivo, incontrovertibile: Donald Trump ha vinto le elezioni ed è a pieno titolo il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America.
Chi perde rimarrà deluso a lungo, a maggior ragione se la propria vittoria era data ottanta a venti. Ciò non implica però una guerra senza esclusioni di colpi sferrata al vincitore.
Il Washington Post è il capofila di questi isterici abbattuti dal sano populismo trumpista, e prosegue la sua campagna di delegittimazione attraverso lo slogan “He is not my president!”; come se non bastasse il 22 febbraio il titolo in prima pagina diceva “la democrazia muore nell’oscurità”. E tutto questo accade mentre i sondaggi più pessimisti attribuiscono a The Donald la fiducia del 55% degli americani: dunque la maggioranza dei cittadini lo appoggia.
Un titolo così roboante ha un senso? E a questi maramaldi e agli altri del New York Times, qualcuno si prenderà mai la briga di tirare le orecchie?
Già, il caro e vecchio New York Times, istituzione riconosciuta nel giornalismo planetario, che però tirò volutamente degli strafalcioni imperdonabili durante la campagna elettorale dispensando sondaggi sulle intenzioni di voto totalmente fasulli, tentando così di invogliare le persone a non votare una causa persa. Chi ci ha rimesso, se non sbagliamo, sono proprio questi giornalisti di nicchia che pretendono di stravolgere le partite politiche quando la squadra per cui tifano non è certa di vincere.
È stato creato un gruppo di giornalisti del Times che hanno come unico compito quello di passare al setaccio ogni parola e movimento del presidente Trump, andando alla ricerca del minimo errore. Il giornalismo non è una guerra personale, noi lo sappiamo bene, difatti, molto onestamente, dopo avervi raccontato ciò che è accaduto alla vecchia testata, siamo ripartiti in quarta con le solite inchieste scomode, la solita cronaca unica e le solite analisi controcorrente.
Perderemmo di qualità se ci lasciassimo travolgere dai dissapori personali. Ed è esattamente ciò che sta accadendo alla stampa liberal americana. Esempio perfetto ne è lo sciacallaggio operato sulla vicenda di un messicano deportato che, qualche giorno fa, si è suicidato buttandosi da un cavalcavia. Gli avvoltoi hanno individuato carne fresca e sono scesi a papparsela, raccontando fregnacce sui provvedimenti di Trump contro gli immigrati illegali pregiudicati.
Straparlano di democrazia, e in Italia ci sono molti che se la bevono.
D’altronde non siamo nuovi a queste campagne personalissime, in cui i giornali si genuflettono al cospetto del loro odio atavico, lasciando che esso elimini l’ultima parvenza di professionalità rimasta.
Le vicende di cronaca giornalistica di cui è stato protagonista Berlusconi parlano chiaro, al netto del procedimenti giudiziari e dei commenti alle sue idee e al suo operato.
Oggi, gli stessi che ieri menavano fendenti al Cavaliere infilzandolo con la spada dell’intrusione, detestano Trump e la sua capacità di polarizzare consenso, di attrarre le masse e di vincere, tutto solo, campagne elettorali pazzesche.
Il Renzi se ne è andato, giorni or sono, in California a studiare la “green economy”, che se non appare già abbastanza ridicola per il nome stesso, adesso lo è dopo l’arrivo in terra americana del suo ultimo studioso. Fa tenerezza questo ragazzotto di Rignano che, come i molti pigri ventenni di oggi, se ne va all’estero ciarlando di fantastici progetti e rendendo la vita propria e della politica un imbarazzante romanzo rosa.
Noi invece stiamo facendo cronaca nera: è morto il giornalismo serio.
[Lorenzo Zuppini]