“GLI INNAMORATI” SONO SEMPRE UGUALI, COME AI TEMPI DI GOLDONI

Gli innamorati
Gli innamorati

MONSUMMANO. Carlo Goldoni è uno degli autori più violentati dai successori. Delle sue opere, alcuni pronipoti, soprattutto nell’ultimo periodo, si sono permessi il lusso di farne quel che han voluto. Nel pieno rispetto delle intenzioni originarie.

Anche ieri sera, al Montand di Monsummano, è andato in scena uno dei suoi più celebri pensieri e come succede da un po’ di tempo a questa parte, Andrée Ruth Shammah, che ha guidato il cast alla micro rivoluzione, ha deciso di scambiarlo, senza comunque fargli un torto. Il risultato è stato meraviglioso, perché la regista ha confidato nel camaleontismo e nella professionalità di un cast decisamente all’altezza, nel quale, a farla da padrona, è stata quello stambecco viziato e tenero che risponde al nome di Marina Rocco, una ragazzina che a 34 anni, anzi, 36 (Wikipedia non sa se la milanese sia nata nel 1979 o nel 1981: il bello è che non lo sa nemmeno lei) è già una prima donna. E giustamente.

Il nostro giudizio su Eugenia, presuntuoso come sempre, per fortuna, si concentra sull’uso delle mani, della voce, dei piedi e delle labbra: dettagli che la trasformano da una brava attrice come ce ne sono molte, in circolazione, in un autentico talento. Un animaletto isterico che non si riesce a tener fermo, questa Marina Rocco, che ci folgorò nella passata edizione, quando la vedemmo all’opera, al Manzoni, nel cast di Filippo Timi in Don Giovanni e che anche ieri sera, nonostante l’umore artistico e teatrale fosse di ben altro linguaggio, la bambina ha messo ancora una volte in luce una performance straordinaria. Lo studio classico della dizione che concorre per primeggiare con l’uso schizofrenico degli occhi e della bocca, una piccolissima Gilberto Govi che è anche e soprattutto e sempre, a onor del vero, una bambina irrequieta e tenera, che si deterge il liquido lacrimale con il calore della felicità, che saltella da una perfidia ad uno slancio di passione con esemplare naturalezza. La Meg Ryan de no’antri, del resto, lezioni di metaformismo le ha avute eccome e sono quelle impartitele da un maestro semplicemente inimitabile, Filippo Timi, che l’hanno lanciata in orbita in questo teatro e in quello che verrà.

All’altezza della protagonista, comunque, tutto lo staff, una macedonia di stereotipi che Goldoni, se fosse stato in platea con i divertiti abbonati del Montand, avrebbe apprezzato parecchio. Ad iniziare da Succianespole (Andrea Soffiantini), un maggiordomo keatoniano stanco e demotivato e un Fulgenzio (Matteo De Blasio) innamorato all’inverosimile che non riesce a placare e vincere le irascibili fantasie della sua Eugenia, lasciandosi puntualmente sopraffare dall’ira di una gelosia incontrollata e incontrollabile, che sta poi alla base del testo goldoniano e del suo grande disequilibrio, perché l’amore agita se stesso e i suoi protagonisti lungo la bisettrice, scomposta e paradossale, del timore, della vanità, del sospetto e del tormento, così allora, due secoli or sono, che oggi.

Divertente e gradito il doppio Roberto Laureri e Elena Lietti, che vestono, rispettivamente, i panni del Conte Roberto e Tognino e quelli di Lisetta e Clorinda, così come Ridolfo (Alberto Mancioppi), che è lo stesso Carlo Goldoni, resuscitato e assoldato alla bisogna, seduto sulla seggiolina del regista che ogni tanto, dopo aver invitato gli spettatori allo spettacolo, interviene e spiega gli umori che agitano i protagonisti, come funzionali e indispensabili all’aggrovigliarsi dei sentimenti che hanno tenuto in corda e con il sorriso sulle labbra tutti i visitatori, Flamminia e Fabrizio (Silvia Giulia Mendola e Umberto Petranca), che sono il contorno saporitissimo di una pietanza servita con gran gusto.

La drammaturgia di Vitaliano Trevisan, nome non certo nuovo per queste originalissime rivisitazioni, fa il resto, nell’esaltazione globale e senza tempo di Carlo Goldoni, un lettore attentissimo, acuto e universale che ha saputo leggere le passioni del proprio tempo con il piglio dell’interpretazione eterna, perfettamente consapevole e parecchio divertito che poco o nulla, secoli dopo, sarebbe cambiato.

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