“GUIDO QUAZZA STORICO ERETICO”

Guido Quazza
Guido Quazza

PISTOIA. Questo piccolo libro percorre vicende del secolo scorso apparentemente legate a una situazione locale. Torino vi appare ancora come la company town dove il potere della Fiat era fortissimo – né lo era meno a livello nazionale – sia nell’attività produttiva diretta, che prendeva carattere di assoluto monopolio nel settore automobilistico, sia nelle grandi scelte di politica industriale, di cui fu simbolo la presidenza di Gianni Agnelli alla Confindustria.

La coincidenza dell’ambito urbano e del potere economico nazionale e sovrannazionale in esso radicato è uno dei presupposti che il lettore deve tenere costantemente presenti se vuole comprendere perché a molti giovani e meno giovani della sinistra poté sembrare, in quegli anni, che lotte economiche alla Fiat e impegno politico in Torino e nella sua Università potessero avere rilevanza generale e aprire prospettive di cambiamenti profondi nella società e nello Stato italiano Il che spiega almeno in parte il frequente apparire, nel linguaggio spesso sovreccitato di allora, della famiglia di concetti legata al termine “rivoluzione”.

Per capire la biografia politica e professionale di Guido Quazza, è necessario ricordare, d’altro canto, la situazione di arretratezza nella quale operava l’università in Italia, e a Torino in particolare. Priva delle due Facoltà del Politecnico, articolata secondo un ordinamento sostanzialmente identico a quello prebellico, per quanto riguardava le cosiddette “scienze umane” essa ospitava all’interno della Facoltà di Magistero modeste, mortificate presenze delle discipline pedagogiche, psicologiche, linguistiche moderne soprattutto occidentali, e geografiche. La sociologia si affacciava, timidamente, anche a Scienze politiche. La Facoltà di Lettere e Filosofia si apriva alle lingue orientali solo per le lingue antiche, a cominciare dal sanscrito.

Nessuna concessione era fatta alle discipline contemporaneistiche: solo alla metà degli anni Settanta la storia contemporanea si sarebbe liberata dalla camicia di forza della tematica risorgimentale, mentre più faticosamente la letteratura contemporanea diveniva autonoma, e finalmente entrambe furono ammesse tra gl’insegnamenti impartiti. Cardine di questo sistema conservatore era uno strumento apparentemente burocratico, il piano di studi, consacrato da leggi dello Stato e da statuti universitari, che impediva qualsiasi scelta innovativa agli studenti, e che prolungava il suo influsso nelle condizioni richieste ai laureati per divenire insegnanti.

A Magistero in particolare, la storia si riduceva a un solo insegnamento, il cui titolare avrebbe dovuto dominare da solo tutti gli spazi e i millenni. Queste premesse sono necessarie per capire la polarizzazione dell’azione innovatrice di Quazza all’interno e all’esterno dell’Università, soprattutto dopo il suo arrivo alla Facoltà di Magistero di Torino dalla Scuola normale di Pisa. Una sede, quella, che lo aveva portato a confrontarsi precocemente con la protesta degli studenti, e dove il professorino torinese ebbe la saggezza di cogliere le novità.

Per esempio il suo confronto diretto con Togliatti alla Normale, che Giachetti evoca come memorando, avvenne grazie a un programma promosso e finanziato con fondi gestiti dagli studenti – attraverso un comitato “di base” – per inviti che miravano ad allargare a economia e politica la didattica della Scuola. Alcuni di quegli studenti avrebbero avuto parte considerevole nell’ “occupazione” del palazzo pisano della Sapienza verso la fine del 1964.

E più d’uno (possiamo ricordare Adriano Sofri e Gianmario Cazzaniga) si ritrovò a seguire le lezioni e il seminario di storia economica tenuto da Quazza al palazzo dei Cavalieri. Queste esperienze, nelle quali il giovane docente si mosse con prudenza, aiutano a spiegare la sua abilità nell’affrontare, qualche anno dopo, la situazione creata dall’occupazione di Palazzo Campana. E spiegano forse la relativa parzialità dei rapporti di Quazza con i movimenti giovanili, la sua vicinanza a “Lotta continua”, di cui conosceva personalmente i fondatori a Pisa e a Torino, e la sua estraneità a gruppi come “Potere operaio”.

Ma Giachetti ci dimostra soprattutto che la prima stagione “torinese” del neocattedratico fu comunque straordinaria per ampiezza e organicità di vedute, e per la prontezza con cui egli collegò le pressioni politiche esterne al conseguimento di un solido potere istituzionale interno al sistema accademico. Iniziò allora, stimolato largamente dal “preside” Quazza, un processo di modernizzazione del quale ha beneficiato tutta l’Università italiana, e ci sembra importante ricordarlo di fronte a considerazioni ricorrenti sul declino delle istituzioni accademiche, che è dovuto a ben più complesse e recenti ragioni che il movimento del “Sessantotto”, e i cui responsabili sono ancora all’opera.

Qui mi sembra doveroso perciò ricordare che, alla fine della lunga stagione della presidenza di Quazza, il Magistero di Torino, se non si convertì nella superfacoltà che egli aveva sognato, poté fornire un solido fondamento alle nuove Facoltà di Psicologia, di Lingue e di Scienze della formazione, e nei diversi dipartimenti assicurò una presenza molto significativa alle discipline geografiche e sociologiche, alle lingue moderne dell’Europa orientale e dell’Asia e, ovviamente, alla storia contemporanea europea ed extraeuropea.

Quelli che erano stati all’inizio semplici “indirizzi” della laurea in pedagogia in una sola Facoltà, divenivano finalmente autonomi curricula di formazione moderna. La sola constatazione di quanto normale questo fatto ci sembri rende giustizia all’impegno innovatore che apparve eversivo, e che era semplicemente di adeguamento ai tempi, di un organismo sclerotico, prigioniero delle proprie logiche di reclutamento e di autoriproduzione. Queste considerazioni vorrebbero indurre ad apprezzare quanto ci pare giusto l’azione di Quazza, che si fondava su una visione generale molto ampia, e che si scontrò infinite volte con le esigenze di corto periodo del mondo universitario, ma soprattutto di quello politico extrauniversitario. Ciò determinò un logorio e anche, da parte di lui, errori che fecero fallire esperienze come quelle di cui Giachetti ci parla, quando Quazza si mosse in spazi propriamente politici.

La fine dell’esperimento “unitario” antifascista a Torino coincise in effetti con il successo delle sinistre alle elezioni amministrative, inatteso trionfo che sembrava premiare una politica di moderazione piuttosto che una di mediazione con i movimenti più radicali. Ma di fatto Guido trovò poi, nella nuova amministrazione, più di un appoggio nel promuovere programmi di innovazione didattica e di “aggiornamento” degli insegnanti in servizio (un campo a cui tenne sempre, fino all’ultimo, e nel quale s’impegnò moltissimo), e il successo di iniziative di vasta portata, come il “settembre pedagogico” da lui organizzato, e appoggiato dal Comune di Torino, che sarebbe stato stroncato solo da un intervento diretto della burocrazia romana con il negare a tutte le municipalità italiane la competenza in materia.

Anche fallì in parte il progetto di fare dell’Istituto nazionale per la storia del Movimento di liberazione in Italia un centro di riferimento nazionale per lo studio della storia d’Italia. Sorde resistenze si manifestarono in più modi, ma soprattutto dopo la morte di Quazza ancora si vide come la storia contemporanea era temuta, e combattuta con armi burocratiche. In pratica si trattò del rifiuto di proseguire nell’esperienza che riservava al Novecento tutto l’ultimo anno di studi storici nelle medie superiori, e del ritorno all’accorpamento in un solo anno scolastico dei due secoli più recenti. Il che toglieva lo spazio per ogni approfondimento o semplicemente per lo studio manualistico di un intervallo cronologico troppo fitto ed esteso.

E per l’Istituto nazionale, che era stato una struttura portante del programma d’insegnamento del Novecento, segnò l’inizio di un processo di emarginazione. Vorrei concludere però queste sommarie note non con il ricordare il grigiore delle lunghe guerriglie istituzionali e burocratiche, ma un episodio dove ancora una volta brillò la capacità di Guido di proporre idee e iniziative di vasta portata. Si tratta del suo intervento al Sedicesimo congresso mondiale di scienze storiche, tenuto a Stoccarda nell’agosto 1985.

Là egli propose e contribuì ad ottenere che gli storici di quelle che ancora si chiamavano “le due Germanie” presentassero per le conclusioni del congresso un documento comune. Ciò avveniva quattordici anni dopo l’erezione del “muro”, che sarebbe fisicamente crollato solo nel novembre del 1989. Guido era stanco, quasi al termine di un impegno logorante di organizzatore e di studioso che voleva tuttavia mantenere – come dimostrò con la monografia su Quintino Sella del 1992 – anche un serio impegno di ricerca. Ma fu tra i più lungimiranti a vedere nell’avvenire la necessità di un cambiamento epocale che oggi, come molte altre sue intuizioni, ci appare tanto più importante quanto più sembra ovvio.

[centro documentazione pistoia]

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