“ITALIANESI”: UNA STORIA IGNOBILE, UNA FIABA STRUGGENTE

Saverio La Ruina
Saverio La Ruina

PISTOIA. Tonino è nato lì, in quel campo, non di zucchine o barbabietole, ma di concentramento, con la terra color verde e grigio, come la merda. Lì è cresciuto, giocando a pallone con gli amici rei, come lui, di essere figli di soldati rastrellati sul fronte albanese alla fine della seconda guerra mondiale, quando nella spartizione politica dell’Europa, l’Albania comunista spettò alla Russia e tutti gli altri, quelli con l’America, nemici.

E Tonino, di Castrovillari, è figlio di Leone, soldato del regime, che parla italiano solo perché in quel campo c’è un vecchio sarto calabrese che gli insegna la lingua e il… mestiere. In quel campo, Tonino cresce e diventa un uomo, che si innamora di una ragazza con i capelli color del fieno e gli occhi celesti, come il cielo. Diventerà sua moglie, quella donna e poi la madre dei suoi figli e con loro, una volta abbattuto il regime, tornerà in Italia, che è un paese meraviglioso, perché ci sono tante città bellissime, come Firenze, Roma, Venezia: Venezia è sull’acqua e la gente ci vive sopra.

È una fiaba inarrestabile, Italianesi, che inizia da c’era una volta, ma non finisce più, resta sospesa. Si perde tra le onde del mar Adriatico, o nelle correnti del mar Tirreno: il primo separa l’Albania dall’Italia, l’incubo dal sogno; il secondo, il Continente dalla Sardegna, finalmente la vita e più in là la felicità, dove vive Leone, suo padre, convinto che in quel campo di concentramento né la moglie, che provò a restargli accanto strappandogli le tasche dalla giacca, né il bimbo che porta in grembo ce l’abbiano fatta e per questo, a Olzai, nella provincia della Barbagia dove è andato ad invecchiare, l’ex fante sta con un’altra donna.

La storia, tenera e commovente come tante novelle che aiutano i nonni a non dimenticare e i nipoti ad addormentarsi, si immerge però in una fiaba ancora più antica, confidenziale, irrisolta. Perché Italianesi sono una serie di elementi che si sovrappongono, intersecandosi e rimandando, ad altro momento, i loro parziali epiloghi, dipinti, con paziente pedagogia, dal maestro La Ruina, che non si dispera mai, che aggira ogni ostacolo, che sa come non intristire oltre il dovuto la propria scolaresca, che è poi gente che in quella storia, qualche punto di similitudine, se non di contatto, lo può sempre trovare.

Una classe, quella del pubblico, quasi interamente popolata dal genere femminile, come al solito, che per questa fiaba imprevista e non immaginabile tanto profonda, non può fare a meno del suo ideatore, del suo costruttore, del suo cantore, Saverio La Ruina, venditore ambulante di magie, tenero tessitore di punti a croce, meraviglioso e colto autodidatta che lambisce, impercettibilmente, i dialetti mediterranei che lo contraddistinguono per offrirsi, in tutta la sua violenza, alle emozioni del pubblico, che resta interdetto, ammutolito, pietrificato, a prescindere dal clima tropicale, umido e disossigenizzato, della sala superiore della Villa di Scornio, dove va in scena la rappresentazione, quarto e penultimo appuntamento, di Teatri di Confine, coda estiva della stagione dell’Associazione teatrale pistoiese in collaborazione con Fondazione Toscana Spettacolo.

Le tonalità sono quelle che si prestano alle recite scolastiche, delle scuole primarie, di fine anno. Il maestro di una provincia sperduta, dove le poesie si imparano prima d’ogni altra cosa a memoria e poi si recitano, accanto alla cattedra, claudicante e povero, ha appena avuto mezzi e tempo per procurarsi una sedia, dove ogni tanto riposare il corpo, la mente e in particolar modo il suo arto offeso, intirizzito dal freddo, forse, o da una di quelle commissioni alla quale è stato condotto durante la prigionia. I suoi scolari credono di saperla già, la storia che andranno a sentire, ma sono spiazzati dall’incipit: il maestro si rivolge ad uno di loro facendogli notare che l’orlo e il cavallo dei pantaloni che indossa non sono precisi e lui, il vecchio sarto del campo di concentramento, lo sa che quei pantaloni sono stati comprati in un negozio e non fatti cucire su misura.

Il ricordo e il racconto proseguono, sulla falsa riga, magnifica e immaginaria di una novella chissà se successa veramente: la scrittura è elementare, modesta, spesso ritondante, perché i più piccoli e i più facilmente distraibili non si annoino, ma sempre secca, indispensabile, onirica; sembra uscita dalla penna di Cormac McCarthy, prologo o epilogo delle mute conversazioni tra padre e figlio nel capolavoro postatomico La strada.

Perché Tonino aspetta e sogna tutta la vita di ricongiungersi al padre e alla sua Italia, ma scopre, appena arrivato a Trieste, quarantenne, alla metà di quell’interminabile viaggio di 128 ore, che nulla è come si immaginava. Così è la vita, del resto, non solo quella amara e borderline dei nati in quel campo di concentramento, nemici in Albania perché figli di soldati invasori italiani e poco graditi in Italia perché nati in Albania. È la storia delle ubiquità sognate e sofferte dall’apolide modestia di un uomo qualsiasi il cui dramma, seppur epocale, non ha meritato che solo alcuni cenni sfiorati dalle pagine della storia e senza mai venir considerato e celebrato dalle ricorrenze.

A rendere però unico Italianesi e soprattutto pagina indelebile del teatro, ci ha pensato lui, Saverio La Ruina, raccontandolo per tutto il tempo sottovoce, chiedendo, puntualmente, ai suoi spettatori, se stessero seguendo e che non si stessero annoiando, cercando con lo sguardo e negli sguardi il conforto di trovare la passione per proseguire e la memoria per ricordare. Un libro antico di disegni ordinati, semplici, a pastello, con qualche didascalia e le pagine, ruvide e pese, spesso incollate tra loro dalla marmellata colata dalla fetta biscottata la volta precedente che si è voluto sfogliarlo. Agli spettatori invece, il compito, sin troppo facile, di non dimenticare nulla.

Soprattutto di aver conosciuto Saverio La Ruina. Di averlo incontrato.

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