PISTOIA. Geniale, sensibile, profondamente ironica. Conosce così bene e profondamente il suo corpo, Cristiana Morganti, che ne fa quel che vuole. E’ un’acrobata, un’illusionista, un’analista, un clown, una replicante, una reincarnazione di se stessa, forse e dopo aver frequentato una vita intera la cantina tedesca di Pina Bausch, è diventata un’artista a tutto tondo. Certo, è una danzatrice, professionista, ma non aspettatevi di vederla saltellare sulle punte: danza sulle braccia, sui polsi, sulle dita delle mani, sulla psoriasi che le divora la cute, sulle paure, che la fanno sorridere, sui successi, dilaganti, che la terrorizzano.
Ieri sera (replica stasera, non ve la perdete, è una cascata di emozioni mai viste) era al Funaro, ospite eccezionalmente gradita per le ultime due anteprime che precedono la tournée, che muoverà i primi passi da Reggio Emilia. Il suo lavoro, Jessica and me, è un concentrato di perfetta, armoniosa e violentissima ironia; del resto, Jessica, era la sua amica con la quale divideva l’appartamento ai tempi degli studi di danza ed era quella secca, secchissima, quasi anoressica, che ingrassava solo in sua assenza. A lei e a quei tempi, Cristiana Morganti, ha forse voluto dedicare lo spettacolo, un’essenza straordinaria di gesti, ombre, muscoli, tenacia, spavalderia e timidezza, ricordi e progetti.
Lo ha fatto guidando i presenti letteralmente pietrificati al cospetto di tanta originalità, esentati da una probabile mummificazione d’estasi solo perché spesso, durante lo spettacolo, la meravigliosa mattatrice romana non si prende sul serio, lasciandosi intervistare da un vecchio mangianastri che la interroga metallicamente o mostrando addominali che hanno superato, da tempo, le ansie da prestazione. In sala si ride, con fragore e già questo è un elemento che distrugge la danza classica e la riconsegna a chi ha saputo trasformare le ferree leggi della natura in qualcosa d’altro. La maestra, del resto, si chiama Pina Bausch, la mortificazione dei codici, la violentatrice della deontologia, la carnefice dei luoghi comuni, archetipi spazzati via dal tempio dei mercanti per consegnare quegli spazi abusivamente occupati a chi alla danza voleva dare un’altra vita, un’altra energia. Voce.
La musica c’è: è lei, il suo muoversi vertiginoso delle mani lungo il copro, quella gestualità ritmica e ossessiva, maniacale, da casa di correzione, lungo un copione suggeritole da Nanni Moretti e poi rubato, per una sola notte, da Jacques Tati, che dopo averlo manomesso, glielo ha fatto ritrovare esattamente nel cassetto nel quale lo aveva riposto la sera prima di coricarsi. Un omaggio a Charlie Chaplin non guasta: ha insegnato a tutti a muoversi con il bastone, con le gambe da cavallerizzo disarcionato e con i muscoli sottili delle gote continuamente pronti a camuffare la tristezza con la felicità e viceversa. Lungo il telo che rappresenta il muro della sua vita e della sua stanza dove ha trascorso l’esistenza per arrivare allo Zenit, si proiettano immagini poco chiare: si intravede l’Urlo di Munch, Guernica di Picasso, ma anche i Muppets, fateci attenzione. Il ritorno è dall’altra parte, a Nadir, lontano, molto lontano da dove era partita, ma è un posto che somiglia parecchio quello lasciato da bambina.
Cristiana ha imparato ad imparare da tutto e da tutti e la capienza incredibile del suo serbatoio l’ha messa nella condizione di riderci su, per ricominciare. Esattamente da dove era partita, da bambina, in una palestra di danza che sarebbe dovuta servire a bilanciare le spalle troppo larghe favorite dal nuoto, pratica sportiva questa che non le aveva però mortificato la procacità del seno, che andava in qualche modo mortificata, onde bilanciare profili automatizzati.
Ride, Cristiana Morganti, perché teme, teme il peggio: lo spettacolo non è ancora pronto, ha paura di non metterlo a regime in tempi utili. O forse ride di gusto perché sa perfettamente che come lei, dal 2009, da quando la professoressa se n’è andata, non c’è più nessuno che sappia arrivare tanto lontano.