LA CALABRIA DELLE “ANIME NERE”

Una scena del film
Una scena del film

UNO DEI POCHI film che racconta quella parte d’Italia dimenticata dallo Stato, Africo e la Calabria più profonda in mano ai rituali arcaici e violenti della ‘ndrangheta attraverso un racconto cinematografico tra western e tragedia greca, “Anime Nere”, in concorso alla 71 edizione della Mostra del cinema di Venezia ed adesso in gara anche a Toronto. Prima pellicola italiana al Lido, alla buona accoglienza da parte della critica è seguito un applauso interminabile che sa di emozione profonda. «Il mio film parla di criminalità, faide, agguati, di una realtà ancora troppo lontana da quella ufficiale e istituzionale – dichiara il regista, Francesco Munzi –. Il cuore dell’opera è rappresentato dalla guerra familiare che squarcia e dissolve i legami fraterni in una Locride selvaggia dove si allevano le capre e si contano i soldi del traffico di droga».

Spiega infatti Munzi che l’ambientazione è uno degli elementi portanti del film: «Avevo molti pregiudizi e paure, temevo che gli abitanti di Africo ci guardassero con sospetto. Invece ho scoperto un luogo aperto e curioso pur nella sua ambiguità e diffidenza verso lo Stato. Abbiamo lavorato senza alcun tipo di censura, con tranquillità, pur mettendo in scena una storia di ’ndrangheta. Contrariamente a quello che si può pensare o alle voci che circolano sulle imprese produttive al Sud, non abbiamo pagato nessun pizzo».

Le riprese sono state molto impegnative, l’attore siciliano Fabrizio Ferracane, nel ruolo di Luciano, è stato un mese e mezzo tra le capre in montagna per immedesimarsi nel personaggio ed imparare il dialetto. L’immagine che trasmette la pellicola è forte, dolorosa, ispirata all’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco rielaborato in epoca più contemporanea, dagli anni ‘70 quindi ai giorni odierni, mentre i tre amici protagonisti del libro divengono sul grande schermo tre fratelli. «Le donne sono anime più nere degli uomini – osserva l’attrice Anna Ferruzzo, parlando della storia –, perché preservano il passato e segnano il destino tragico della famiglia».

Anche il finale è cupo, ma «ha anche una carica eversiva enorme perché rompe gli schemi del male» avverte il regista, quindi a suo modo un finale rivoluzionario. Da qui l’appello del giovane protagonista Giuseppe Fumo, rivolto ai suoi coetanei calabresi: «Non c’è futuro con la mafia. So che non c’è lavoro al Sud, ma costruitevi un avvenire senza ’ndrangheta».

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