LA LEGGENDA DEL SANTO CHITARRISTA

Santana a Pistoia. 2015
Santana a Pistoia. 2015

PISTOIA. Ve lo ricordate quando vi imbatteste, per la prima volta, nella lettura di Cent’anni di solitudine? Erano i primi anni 70: sognare, più che un diritto, era quasi un dovere, generazionale. Il film-concerto di ieri sera, martedì 21 luglio, ottavo e penultimo appuntamento di questa edizione-pilota del Festival Blues, di Carlos Santana e della sua numerosissima formazione, ci ha ricordato, in più di un’occasione, l’interminabile poesia di Gabriel García Márquez.

Perché nonostante abbia chiesto e ottenuto la cittadinanza statunitense, la stratosferica sei corde messicana resta, e lo sarà per sempre, quella di un indio, abituato, per necessità, a captare ogni minimo segnale e capire, nel preciso istante del contatto, quale sia il momento di attaccare, che spesso, per molti suoi connazionali, è coinciso con quello di riuscire ad oltrepassare il confine, dove i desideri, che di là dal filo spinato sono solo sogni, al di qua si trasformano in opportunità.

E visto e considerato che con quel libro, Márquez, nel 1972, ottenne addirittura il premio Nobel per la letteratura, ieri sera, in piazza del Duomo, si è rivista la gente di tanti anni fa, quella che leggeva, fumava, teorizzava la rivoluzione. Certo, oggi sono tutti impiegati in banca, hanno la seconda macchina e la villetta con il cancello ad apertura elettronica, ma alla prima dignitosa occasione, molti di loro adorano riavvolgere la pellicola della propria esistenza e tornare a quei tempi.

A quei tempi esplodeva il baccano: Woodstock ne divenne un manifesto, un’icona, un’incitazione alla ribellione e a Woodstock, ventunenne, con nemmeno un’incisione alle spalle, c’era anche lui, Carlos Santana, che John McLaughlin non aveva ancora ribattezzato Devadip. Alle spalle del palco galattico di questo Festival, ieri sera, c’era un altro monumentale schermo, sul quale, mentre la band suonava ininterrottamente buona parte del proprio repertorio latino-americano, scorrevano le immagini di quella leggendaria reunion.

Santana a Pistoia. 2015
Santana a Pistoia. 2015

Da quel Carlos Santana, del 1968, a quello visto esibirsi ieri sera, a Pistoia, del 2015, le differenze sono poche, quasi impercettibili. Qualche chilo in più, inevitabile, da vent’anni a sessantotto; i capelli se li è lasciati allungare, anche se il tempo li ha diradati. Ora però, in testa, ha un cappello, un borsalino sudamericano, bianco, come le scarpe. Sopra la fruits, un gilet, andino, freakettone, dal quale ha deciso di liberarsi presto, in considerazione delle temperature che anche ieri sera, a notte fonda, parevano essere quelle che si registrano in pieno giorno.

Ma la vera unica grande differenza rispetto ai suoi albori carrieristici, ieri sera, Santana l’ha sottolineata esibendosi: un crescendo di energia incalcolabile, un traporto meraviglioso, esaltato ed esasperato dalla sua assoluta disappartenenza. I signori del resto, fanno così, anche quelli della musica, anzi, soprattutto quelli della musica. In particolare quando sul palco, al loro fianco, convive uno stuolo di strumentisti da far impallidire, come la sezione percussionistica, quella dei fiati, il suo tastierista, i due cantanti, a volte coristi, a volte solisti e la parte delle corde, chitarre e basso. Lui, come la scuola di Miles Davis e Pat Metheny insegna, ha spesso dato le spalle alla piazza, cinguettando con i suoi colleghi sul palco, ai quali ha sistematicamente impartito contatti, improvvisazioni e soprattutto dato ordini concertistici.

Santana a Pistoia. 2015
Santana a Pistoia. 2015

Lui, Carlos Santana, ha fatto urlare a squarciagola le sue chitarre, imbracciate con repentina disinvoltura tra un pezzo e un altro nelle due ore abbondanti di esibizione, senza soluzione di continuità, senza un attimo di sosta, senza aspettare l’ovazione degli oltre diecimila che affollavano la piazza. Il tempo di chiudere un brano e sull’ultima sua nota, intonare il successivo, per riprendere il cammino, per cercare di arrivare almeno fino al mare, possibilmente sul fare del giorno, quando sulla battigia ci sono solo gabbiani, carcasse abbandonate, barcacce di pescatori invecchiati e qualche rete, che qualcuno ha dimenticato di tirare fin sulla spiaggia.

Più che ad un concerto, ieri sera, si è assistito alla proiezione di un documentario e se qualcuno, in piazza sia stato colto da qualche dubbio, a ricordargli che si trattava del film sulla vita di Carlos Santana ci ha pensato direttamente lui, con le sue sei corde, strappate fino all’ultimo respiro, immortalate fino al decibel più lontano, strizzate come stracci da usare per pulire il patio, dove dal pomeriggio a notte fonda si è bevuto, giocato a scacchi e fumato, tantissimo.

Non si è concesso ai revival, quelli che buona parte del pubblico aspettava in gloria, Santana: per questa bisogna ci sono i dischi, gli Lp, i Cd, i video, i filmati, You Tube, se avete voglia di tuffarvi, con rimpianto, nel passato. Oggi vi suono la mia memoria, le mie fortune in compagnia di una band che, nonostante il mio passaporto sia a stelle e strisce, non posso e non voglio dimenticare che gli States, da bambino, fossero solo un sogno, fortunatamente avveratosi.

Neanche un bis: sull’ultimo brano in scaletta, dietro, sullo schermo a colori di un tramonto cubano, prima di arrivederci, grazie e buonanotte, i nomi di quelli che hanno reso possibile lo spettacolo e un invito, tacito, a tutti gli spettatori: prima di addormentarvi, stanotte, riprendete almeno in mano Cent’anni di solitudine con l’impegno che prima che finisca l’estate, iniziate a rileggerlo.

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