MONSUMMANO. La conversione civile, prima che politica, del borgataro Manuel (Alberto Onofrietti) – nazistello che detesta froci, negri e extracomunitari – convince con qualche ragionevole titubanza, così come la dissociazione di Aurora (Elisabetta Femiano), ex terrorista arrestata grazie alla spiata paterna e convertitasi alla medicina per i più poveri. Il mosaico familiare però, tutto sommato, resta in piedi e lui, Gianrico Tedeschi, Renato, il vecchio partigiano che non ha smesso di crederci e di informarsi, veste gli abiti (il pigiama per buona parte dello spettacolo) e il tutore (per un femore rotto proprio da Manuel, che lo ha inavvertitamente investito con l’automobile nel garage condominiale), recita, naturalmente, la parte del leone, decisamente invecchiato (94 anni, veri, non di scena), ma con addosso tutto il piglio e la vis che si competono ai mattatori.
Ha battezzato così, ieri sera, l’Yves Montand di Monsummano, la stagione teatrale, con Farà giorno, un testo scritto da Rosa Menduini e Roberto De Giorgi, per la regia di Pioero Maccarinelli e trasformato in spettacolo dai tre attori snocciolati nella presentazione.
Alcuni passaggi restano in piedi con molti benefici di inventario, così come la mansueta aggressività dell’ospite, che si prenderà cura del vecchietto solo per evitare guai peggiori e anche il ritorno a casa di Aurora, dopo un’assenza ingiustificata e muta di trent’anni, mal si conciliano con un rendez-vous decisamente troppo poco enfatizzato.
Certo, in piedi, anzi, disteso nel letto della stanza, ci deve restare solo e soltanto lui, Renato, che le moltissime candeline, oltre alle fucilate naziste, il carcere fascista e tanta disperazione, non hanno ancora stirato. Il passo civico e civile è decisamente interessante, ma la bellezza poetica e passionale del vecchio partigiano, nel quale si individuano i tratti di moltissimi vecchietti scampati alle guerre, alla dittatura e alla miseria, relega in penombra, con difetti di regia, i due comprimari.
Simpatico, oltre alla forte contrapposizione dei due slang – da un lato il folkloristico e approssimativo romanaccio di Manuel, bilanciato dal dotto e misurato padavino di Renato – anche lo scambio delle gigantografie nella stanza, che è anche e soprattutto il segnale del riferimento della passata generazione e il divismo dell’attuale: al posto di un grigio, colto e pensieroso Antonio Gramsci, infatti, nella seconda parte campeggia il coloratissimo poster di Francesco Totti, un passaggio di testimoni che lascia intendere dove si siano disperse le eredità.
Resta comunque il dato, sbalorditivo, meraviglioso, teatralmente più unico che raro, della incredibile longevità del protagonista, Gianrico Tedeschi, classe 1920, una classe cristallina, che in più di una circostanza, nello spettacolo di ieri, ha sottolineato, nelle parentesi di pathos maggiore, alcune riflessioni epocali, come quella che ha strappato gli applausi a scena aperta: il dramma della vecchiaia è che non si possono più avere speranze. E in sala, qualcuno, avrà sicuramente pensato che a proposito, la nostra società, più che vecchia, può dirsi decrepita.