Ogni serio proposito riformista deve oggi partire da un presupposto: in Italia, da un punto di vista socio-culturale, esiste una maggioranza riformista. La gran parte del paese, se interrogata o colta a interrogarsi sui propri bisogni e sul futuro, non esiterà a esprimere un desiderio non solo di cambiamento, ma spesso di completo rivolgimento dei metodi, dei processi e dei rapporti che riguardano il proprio ambito di occupazione e in genere la propria vita nella comunità. So che è un tema vecchio. Fu proposto per la prima volta – a quanto mi risulta – in una conferenza programmatica del PSI nella primavera del 1982. Il giorno della chiusura dei lavori, io compivo 5 mesi. Lo scorso novembre ho compiuto 32 anni, e ancora su un piano politico il paese non ha conosciuto una vera stagione riformista. Eppure, tornando alla dimensione socio-culturale, la maggioranza riformista del paese, a opera soprattutto della rivoluzione digitale, della rete e della conseguente rivoluzionaria enciclopedizzazione del sapere, è aumentata. Nella società, il pensiero e persino l’istinto riformista hanno guadagnato terreno. Sul piano politico, invece, ne hanno perso. Gli interpreti e i rappresentanti di quella maggioranza riformista sono stati soggetti politici conservatori (la destra berlusconiana, la Lega, il M5S etc.), dimostratisi capaci di stringere un patto espressivo, estetico con l’istinto riformista del paese senza far seguire a quell’accordo un passo ulteriore, una vera azione di riforma. Detto altrimenti: questi soggetti politici hanno accolto e fatto risuonare la re-azione, anche rabbiosa, del paese, senza organizzarne e promuoverne l’azione. Si è creata così una paradossale corrispondenza tra l’iper-dinamismo dei desideri e dei bisogni, dell’indignazione e della rivendicazione, e l’iper-immobilismo dell’azione e della mobilitazione.
La sinistra è stata a lungo spettatore disorientato del fenomeno. Ne ha sottolineato solo il secondo momento – bollandolo spregiativamente come populismo, barbarie, fascismo etc. – senza mai comprendere e interpretare il primo momento, quello originario e perdurante, il bisogno di cambiamento, l’istinto riformista – fino a riuscire nel catastrofico miracolo di essere percepita come la vera forza politica conservatrice del paese. Da un lato, la sinistra si è opposta ai propositi di riforma (riforma della giustizia e del mercato del lavoro, federalismo, sburocratizzazione, abbassamento della spesa pubblica, abbattimento della pressione fiscale etc.) di Berlusconi&co. anziché opporsi alla sostanziale assenza di una vera azione di riforma che facesse seguito a quei propositi e dall’altro, quelle riforme che erano e sono patrimonio politico-culturale della sinistra (penso soprattutto a temi roboanti come quello delle unioni civili, dei matrimoni gay, dello ius soli, dell’ambiente etc.) sono state proposte a sprazzi, soprattutto in fase di campagna elettorale, senza mai una vera azione politica che ne perseguisse l’attuazione. Sono questi, a mio avviso, i due più nitidi errori politici della sinistra negli ultimi 30 anni: opporsi alle riforme che il paese reclamava marcandole come estranee al proprio retaggio politico-culturale e non muovere un passo nell’attuazione delle riforme proprie del suo retaggio politico-culturale.
Se si vuole analizzare e comprendere seriamente il fenomeno-Renzi, mettendo da parte sia gli atteggiamenti apocalittici sia quelli giubilanti e messianici, bisogno farlo alla luce di tutto questo. Renzi ha capito meglio e prima di altri l’esistenza di questa maggioranza riformista, e anziché perdersi in elucubrazioni melanconiche su come e quando i componenti di questa maggioranza avevano votato alle precedenti elezioni, anziché concentrarsi sul secondo momento di questo processo socio-culturale vecchio almeno quanto il sottoscritto, si è concentrato sul primo, sull’istinto riformista, e lo ha intercettato. Adesso il suo compito, da capo del governo, è trasformare – per la prima volta muovendo da sinistra – la reazione in azione, il bisogno di riforma – finalmente abbracciato e accolto – in azione politica riformista. Tutto questo avviene in un quadro preoccupante in cui un’alternativa a Renzi, letteralmente, non esiste. Non possiamo procedere secondo una schietta logica dell’alternanza. Se Renzi fallisce, non governa la Merkel, né Sarkozy, né Cameron. Se Renzi fallisce, siamo, politicamente, al punto di partenza e sul piano sociale siamo un passo più avanti verso la catastrofe. Di questo, molti amici militanti del Partito Democratico paiono talvolta non rendersi conto.
Massimo Baldi, renziano ospite
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