PISTOIA. Il minimo comune multiplo, ma anche il massimo comun divisore, scegliete voi, è stato la danza, ma nelle sue forme più varie, estreme, comunque esaustive.
Sono quelle consumate, con rabbia, sudore e emozione, nello spazio accogliente, ma non certo vasto, del Funaro, ieri, giovedì 25 giugno, dal tardo pomeriggio fino alle ultime ore della sera, passando attraverso il gradito intermezzo della cena, fredda, ma calorosa; sono quelle che hanno dato vita e pensieri al terzo dei cinque appuntamenti in scaletta della rassegna Teatri di Confine.
Ha iniziato Irene Russolillo, alcolizzata, in preda a furori iconoclasti, memore dell’umorismo che la contraddistingueva prima che si abbandonasse agli effluvi del rum, straordinaria reincarnazione di una folle che non ha saputo contenere i propri portenti, con una sensualità al limite del peccaminoso perché le pazze non si possono desiderare, ma rimirare sì, perché anche dopo il trattamento sanitario obbligatorio al quale è stata sottoposta, nonostante gli arti soffrano di improvvise contrazioni, è ancora perfettamente capace di interagire con il proprio corpo, che segue però una dinamica e una bisettrice che sfuggono alla sua volontà, velata da quel senso di umorismo percepibile solo dal pubblico, non più da lei, che ha finito per essere risucchiata dalla spirale dei suoi eccessi, sollecitata alla danza, ma non al sesso, da tre vibratori che agonizzano in terra, che le ricordano quanto fosse bella, un tempo, ma non ora, incartapecorita tra violente esternazioni di tosse e conati di vomito, anche se è di amore, che vorrebbe parlare, anzi, di more, ore, re e… lo spettacolo è appena iniziato, ma è già finito. Il tempo non ha senso, il senso del tempo, di tempo, ma soprattutto senso, non ne ha.
La musica, con la sua complicità, è di Piero Corso: insieme, hanno realizzato Strascichi – già ammirato la stagione scorsa alla Gualchiera di Montemurlo e già subissato di premi, riconoscimenti, targhe, applausi a scena aperta, ma anche chiusa – e la vista, consigliata ad un pubblico non necessariamente adulto, ma non certo allineato e poco propenso ai sorrisini, è adibita nella sala classica delle rappresentazioni del Funaro.
Il tempo con Irene Russolillo passa in fretta, ma non perché domani, sabato 27 giugno, debba debuttare a Castiglioncello con Aloan, un altro suo impegnativissimo lavoro; passa in fretta perché è meglio così: concentrarsi sui suoi lavori è un rischio altissimo, e poi, in scaletta, irrompe Gianluca Girolami, coreografo lucchese che vive in Francia e che per questo suo “M” 1, e poi 2 e poi 3 si è voluto fidare solo di loro tre: Jonathan Sanchez, Manuel Molino e Jee Hyun Hong, un franco spagnolo di origine italiana, un francese di origine incerta e una coreana.
L’aggressione della rappresentazione precedente scompare del tutto, ma non cala l’intensità recitativa. Anzi, il pubblico, il solito pubblico che prima si era quasi impaurito delle urla, melodicissime, di Irene Russolillo, stavolta viene amorevolmente condotto nel centro della scena, da sguardi ammiccanti, rassicuranti carezze, movimenti consoni alla danza. Siamo usciti dalla sala e siamo nel giardino in pietra interno al Funaro. Anche la loro storia merita di essere seguita e raccontata, perché sono in tre, due uomini e una donna e solo la complicità e l’amicizia li tengono uniti in questa circonferenza che potrebbe sembrare ansiogena, ma che invece è un posto ideale, tanto per loro, quanto per chi li sta guardando.
Raccontano storie di amore, etero e omosessuale, ma con la grazia della poesia, che poco o nulla hanno a che vedere con la violenza della scena precedente. Va bene così, le modulazioni, in frequenza, vanno somministrate con parsimonia; il tempo, che non ha senso, serve però a calmierare emozioni e prezzi: il mercato non soffre, venditori e acquirenti possono trovare il giusto compromesso.
Sono quasi le 21, è ora di cena. La caffetteria del Centro di animazione Funaro è già all’opera dal tardo pomeriggio: è tutto pronto, anche vini bianchi, rossi e prosecchi, non letteralmente contemplati dal menù a prezzi decisamente abbordabili. Dopo però, è il grande momento, quello atteso dalla maggior parte dei presenti, che sono, in larga rappresentanza, i genitori, gli zii e i nonni degli otto danzatori (un paio già sulla rampa di lancio), in un età compresa tra i 9 e i 12 anni, che sulle note di Maurice Ravel e sotto la guida della loro coreografa d’eccezione, Cristina Rizzo, sono pronti per il loro Bolerò.
Che è la terza via della danza, anzi, la prima, ma del terzo millennio, con le basi del mestiere ben fissate nel corpo e nella mente, ma con uno spirito nuovo, che è quello che sdogana anche motivi e profumi che sembrano appartenere, inderogabilmente, ad un passato che è già morto. E invece…