LE VOCI DI DENTRO LE SENTONO TUTTI

Le voci di dentro
Le voci di dentro

PISTOIA. Ci sforzeremo di essere banali il meno possibile, consapevoli però che non sarà affatto facile non scivolare nella retorica più gratuita. Allora, per evitare di limitarci a trascrivere e snocciolare una serie di roboanti aggettivi utili a tracciare, solo approssimativamente, Le voci di dentro, di Edoardo De Filippo, riportato alla luce e in scena da Toni Servillo e la sua compagnia, ieri sera al teatro Manzoni di Pistoia per la prima delle tre rappresentazioni in cartellone, partiamo dalla fine.

Gli attori sono appena rientrati nei camerini. In sala, la gente, è ancora in piedi ad applaudire: li vorrebbe ancora tutti fuori, per la sesta, settima volta, ma soprattutto vorrebbe Toni Servillo da solo, nonostante il fratello Peppe e tutto il resto degli attori siano e siano stati altamente all’altezza.

Lui invece, una nobile reincarnazione di Eduardo, riveduta, corretta e contestualizzata, consapevole di poter fare l’antidivo perché è un divo, anzi, il divo, preferisce regalare il centro della scena ai suoi discepoli, restando a dirigere gli inchini di fine spettacolo dal limitare destro del palco; sull’altra estremità c’è suo fratello Peppe, che già ai tempi degli Avion Travel aveva lasciato intendere quanto fosse e volesse essere teatrale, la sua musica. Nel mezzo, perfettamente allineati, Chiara Baffi, Betti Pedrazzi, Marcello Romolo, Gigio Morra, Lucia Mandarini, Vincenzo Nemolato, Marianna Robustelli, Antonello Cossia, Daghi Rondanini, Rocco Giordano, Maria Angela Robustelli e Francesco Paglino.

La gente in sala continua ad applaudire. Lui, Toni Servillo, è già nei camerini ed ha notato qualcosa che stasera, venerdì, nella prima replica e domenica pomeriggio, nell’ultima, si può correggere. L’ingresso in scena del presunto assassinato in compagnia della moglie sembra non aver rispettato i tempi dovuti o che per questi occorra un altro escamotage, un altro incidente probatorio e teatrale: si può fare. È maniacale l’attenzione che Servillo dedica al tutto: i piani sequenza devono rigorosamente coincidere in un sol punto, quello mille volte provato e riprovato; un attimo prima è presto, un attimo dopo è tardi, nulla può essere lasciato al caso, alla fatalità, alla linea superiore della trama.

La gente, in sala, continua ad applaudire. Toni Servillo, che non si è ancora tolto gli abiti di scena, ripensa, nel suo camerino, lasciato a porta aperta, a quello che è successo nei 100 minuti precedenti. Lo fa a voce alta, affinché tutti sentano. Lo fa sorridendo, come un padre che carezza la testa del proprio figlio che ha appena preso otto a scuola al compito in classe di italiano, ma per come scrive e sa scrivere, avrebbe potuto prendere qualcosa di più.

Hanno appena terminato di interpretare uno dei testi più filosofici di Eduardo De Filippo. Alberto Saporito sogna un efferato delitto, condito da torbidi e cruenti dettagli. L’autorità giudiziaria si fida del suo racconto e arresta i presunti assassini e complici. Il castello accusatorio si sbriciola prestissimo però e tutti tornano in libertà. Il sognante accusatore, da carnefice, diventa un calunniatore, dunque una vittima, reale, alla quale, però, ognuno dei presunti implicati rivela un retroscena che ha il potere di trasformare quell’incubo in un’agghiacciante possibile realtà. Mancano però le prove: i documenti che sarebbero dovuti essere nascosti in un foro nel muro fatto dietro la madia della sala da pranzo, la camicia insanguinata, la sciabola, la bilancia.

Toni e Beppe Servillo
Toni e Beppe Servillo

È attorno ad un’invenzione, un sogno, una voce di dentro che si muovono i dialoghi, le pause, le scene, i tempi, le sequenze e la bestialità di ognuno di noi; si recita in napoletano, a volte stretto e quei vocaboli che sfuggono alla naturale comprensione di chi vive lontano da quelle terre vengono recuperati dalle smorfie dei protagonisti, smorfie che sono diventate, proprio grazie ad Eduardo De Filippo, universali, esemplari, che non necessitano di alcuna traduzione per essere capiti, assimilati, condivisi.

Alberto Saporito non capisce più se fosse sveglio quando sognava o dorma quando ascolta. Attorno a quell’innocente, seppur diffamatorio, incubo, si muovono in realtà una moltitudine di cattiverie tangibili, ma represse, che aspettano di affiorare ed esplodere alla prima tragica, ma buona occasione. L’inumanità regna sovrana, anche tra i fratelli, tra il sangue dello stesso sangue e la carne della medesima carne ed è per questo che Alberto Saporito finisce per confidare solo nelle esplosive e pirotecniche conversazioni con il pazzo del rione, che ha deciso di non parlare più, perché parlare non ha più alcun senso.

Foto di Luigi Scardigli

Print Friendly, PDF & Email