L’HEYSEL, TRENT’ANNI DOPO. QUANDO UCCISERO L’ANIMA

Heysel-Stadio
Heysel-Stadio

PISTOIA. Furono sufficienti pochi minuti d’immagini televisive, di gente in fuga dalla morte di corpi accatastati di urla strazianti e gesta bestiali ed eroiche, per farci crescere di anni. Per farci crescere male.

Il 29 maggio 1985, in occasione della finale di Coppa dei Campioni tra la Juventus e il Liverpool, la tragedia del settore Z dello stadio Heysel di Bruxelles ci consegnò 39 angeli, volati in Cielo per la furia cieca degli hooligan, e un pallone sfregiato per sempre.

Doveva essere una partita di calcio, fu il punto di non ritorno. Da allora sono trascorsi 30 anni e ogni tanto verrebbe da pensare, invano. Sì, perché la lezione che ne scaturì è stata compresa da pochi, pochissimi. Il football è migliorato grazie a indomiti sognatori (e ci vengono subito in mente Otello Lorentini e l’associazione “Fra i familiari delle vittime dell’Heysel”: l’Uefa fu poi riconosciuta responsabile dell’organizzazione di eventi sportivi), ma è anche peggiorato, perché l’uomo è il peggior nemico di se stesso e ha continuato a farsi del male.

A uccidersi per veder rotolare una sfera. Non assistemmo a una gara sportiva, trent’anni fa, ma alla follia omicida, all’overdose da pallone. Fummo incollati al tubo catodico dal sangue di innocenti arrivati in Belgio per fare festa.

Come essere catapultati all’Inferno, per vedere l’effetto che fa. Fu disputata una farsa, una partita falsa per timore di dilatare all’infinito la carneficina. Fu decretato un penalty per un fallo avvenuto alcuni metri fuori area, quasi a voler sporcare ulteriormente la recita.

Qualcuno alla fine ebbe il coraggio di alzare una Coppa che non avrebbe dovuto essere riconsegnata soltanto perché non doveva essere neppure sollevata. Bruno Pizzul, il telecronista Rai dell’epoca, fu immenso nel suo e nel nostro dolore, strazianti.

Cercò di limitare il racconto, di non adoperare iperboli, di non farsi notare, come gli arbitri bravi, bravi davvero. Ma anche in questo caso, una telecronaca che andrebbe studiata – e che all’epoca fu persino contestata – non ha fatto proseliti, perché trent’anni dopo non si fa altro che gridare, sbraitare, mostrarsi invasati. Invasati come coloro che, superbi, pensarono di potersi permettere di togliere la vita altrui. In un attimo, per gioco. Iddio possa perdonarli.

Noi, a distanza di tre decenni, non ci riusciamo. Vorremmo e non ce la facciamo. Lo desidereremmo, ma poi… un’immagine e la morte dentro: l’anima.

Print Friendly, PDF & Email