PISTOIA. Pistoia-Bari sono 810 chilometri, stecchiti. Lo dice Adriano, con un marcato accento pistoiese. Sei originario della Puglia, ribattiamo tanto per tenere in piedi la conversazione. No, sono albanese, di Scutari, anzi, di Velipoja, per l’esattezza, il mare di Scutari.
Inizia da qui l’incredibile, appassionante e tenero racconto di Adrian Nikolli, 27 anni il prossimo 16 agosto, sposato con Eriselda e, da tre anni, padre di Angelica, la loro bambina. È impiegato, da svariati anni, presso l’azienda vivaistica, località Le Querci, Giacomo Giacomelli. Dal lunedì al venerdì; il sabato e la domenica, svolge altri piccoli lavoretti, che servono ad arrotondare. Non è un racconto qualsiasi, ma uno di quelli che in più di una circostanza il brivido, l’emozione, l’incertezza e la paura accapponano la pelle. E inizia una sera d’estate, nel giugno del 2003.
“Mio padre mi accompagnò, in macchina, fino a Durazzo – inizia a raccontare sorridendo Adriano, che pasteggia a rosso misto a coca-cola – . Arrivammo in un bar. Dopo pochi minuti arrivò una Bmw con a bordo un uomo e una donna. Sembrava conoscerli, mio padre, ma non ci giurerei. Mi fecero accomodare dietro e ci dirigemmo a Tirana”.
Mentre inanella ricordi e dettagli, Adriano si tocca continuamente una fascetta di metallo che porta al medio della mano sinistra. Lungo la circonferenza ci sono incise delle parole. “È il padrenostro, una preghiera che mi ha fatto compagnia e che spesso mi ha fatto trovare la forza che non pensavo di avere. Me lo ha regalato mia moglie”. A Tirana viene fatto alloggiare in una casa, dalla quale, per due giorni, non esce. Il terzo, finalmente, un’altra coppia lo preleva e lo porta a spasso, a comprare dei vestiti. Adriano, con sé, non ha nulla. Ha solo un po’ di soldi. Il conto dell’odissea l’ha già saldato il padre, alla partenza: 3.500 euro. “Sono i soldi che avevo guadagnato quando, da bambino, vendevo latte e formaggio: li avevo dati a mio padre e lui li aveva messi da parte per quel giorno che sarei dovuto andare via. Quel giorno era arrivato”.
“I vestiti nuovi servivano per un altro spostamento: la sera infatti mi dissero che nel giro di breve sarei dovuto andare a Korca, al confine con la Grecia. Una notte da incubo, con altri sette uomini, tutti più grandi di me. Prendemmo un taxi che ci condusse in un posto sperduto: il costo del viaggio era 10 euro a testa. A me, il tassista, ne chiese 50. Non sapevo come fare, non sapevo come far valere le mie ragioni. Ci pensò Vladimir, a difendermi, uno dei sette. Per nulla impressionato dal coltello che il trasportatore estrasse per impaurirmi, tirò a sua volta fuori una pistola e la puntò contro il tassista, facendogli capire che il mio viaggio, quella sera, era un semplice passaggio e non una corsa a pagamento”.
“Appena scesi dalla vettura, con i miei compagni di fuga ci incamminammo verso la boscaglia e appena la visibilità si ridusse paurosamente, iniziammo a correre. Mi avevano detto che il confine con la Grecia era a dieci minuti: corremmo a perdifiato per oltre due ore. Prestissimo mi si ruppe un sandalo. Prosegui la corsa scalzo. I piedi mi sanguinavano dappertutto, ma non sentivo dolore, non potevo sentire dolore. Correvo e piangevo, correvo e pregavo”.
Finalmente in Grecia, fuori dall’Albania, lontano dalle guardie di confine che se li avessero trovati, avrebbero fatto passare loro bruttissimi momenti. Ma a Patra, dove li aspettava un tipo losco, ricorda Adriano, con una grande jeep dove salirono tutti insieme, l’avventura prese una piega non contemplata e indesiderata.
“Ci sistemarono in una catapecchia, in un mega stanzone, con tante brande allineate. Quella sera stessa partiva un traghetto per l’Italia: c’era un solo posto disponibile. Toccava a me, ero il più giovane. Nelle poche e telegrafiche conversazioni che scambiai con Vladimir, però, lui mi disse che arrivare il giorno dopo in Italia era questione di vita o di morte. Lui mi aveva protetto, lui mi aveva salvato la vita, lui mi aveva preso in consegna, senza che nessuno gli avesse detto nulla, né che qualcuno lo avesse pagato per prendersi cura di me. Dovevo ricambiare in tutti i modi e gli cedetti il posto. Furono momenti incredibili. Pianse, mi ringraziò, con un semplice gesto del capo e si mise le mani in tasca, da dove tirò fuori 200 euro, che mi strinse tra le mani. Poi, su un pezzetto di carta, scrisse il numero del suo cellulare”.
Passavano i giorni e Adriano continuava ad aspettare. Un’attesa snervante. Mangiava solo pane, pomodoro e burro e beveva latte. Non sapeva cosa gli sarebbe potuto accadere. Non sapeva cosa era successo. Non sapeva nulla. I patti, sottoscritti con la consegna di quei 3.500 euro, erano altri: che Adriano venisse trattato da principe e che, almeno due volte al giorno, potesse contattare telefonicamente, una volta in Grecia, i suoi a casa. Nulla. Dopo varie peripezie, Adriano finalmente riesce a parlare con il padre, al quale spiega tutto. Il padre gli dice di ritornare indietro, glielo dice piangendo: forse si pente di aver mandato alla sventura suo figlio così piccolo, Anche Adriano piange: ha paura, non sa cosa gli riservi il futuro, ma ormai è partito e indietro ha deciso di non tornare.
Stanotte, parte un altro traghetto. È il turno di Adriano. Stavolta tocca al bambino e non c’è nessun altro Vladimir al quale dover ricambiare qualcosa.
“Appena arrivai al porto, un camionista greco, che parlava molto bene l’italiano, mi disse che dovevo seguirlo sul ponte. Non l’avevo mai visto. Né lui aveva mai visto me. Ma sulle banconote di quei 3.500 euro qualcuno, forse, doveva aver disegnato la sagoma del mio volto, altrimenti, tutti queste coincidenze, tutti questi incastri si spiegherebbero difficilmente. Montammo sul bilico e lui mi consegnò dei documenti: falsi, naturalmente. C’era la mia foto, ma i dati dicevano che ero maggiorenne e che come lavoro facevo il camionista. Assicurato il mezzo pesante nella stiva, salimmo sul traghetto: non avevo mai visto una cosa così bella. Piscine, discoteche, negozi, bar: c’era di tutto, su quel transatlantico! Appena lasciato il porto, mi feci una doccia e con i soldi che avevo e quelli che mi aveva dato Vladimir andai subito a fare compere: un costume, per fare il bagno, un asciugamano, una paio di pantaloni e una maglietta, che conservo ancora, gelosamente, nel mio guardaroba. La mattina dopo arrivammo ad Ancona. Il mio amico camionista, di cui non ricordo il nome, ma non ricordo nemmeno se me l’abbia mai detto, come si chiamasse, mi porse il suo cellulare e mi autorizzò a telefonare a chi volevo e dovevo. Chiamai mio cognato, che viveva, già da qualche anno, in Toscana, a Montemurlo, per la precisione. Lo aspettai lì, al porto di Ancona, con la speranza nel cuore e gli auguri di buona fortuna che mi dette il camionista, che prima di ripartire per la Grecia e riportare in qua chissà quanti altri Adriano, mi abbracciò forte”.
Il resto, pur sempre inusuale, è meno leggendario del viaggio. Durante questi anni, nei quali ha lavorato sodo sempre, Adriano ha conosciuto Eriselda, albanese come lui, ma di Fier, dalle parti di Valona, ad un corso di apprendistato. Lavorava in tessitura; ora è impiegata in una mensa. Un anno di fidanzamento e poi, il matrimonio, un amore che ha dato il suo frutto più bello, Angelica, la cosa più importante della mia vita. I genitori di Adriano sono ancora lì, a Velipoja. Una delle due sorelle maggiori, Agnese, vive e New York. L’altra, Aliketta, a Montemurlo. La più piccola, Aurora, è restata in Albania. Vuole terminare gli studi e con i soldi che puntualmente Adriano invia alla famiglia, ce la farà a sistemarsi. Poi, forse, partirà anche lei, ma lo farà a bordo di un aereo, senza scappare. Il padre viaggia su una Mercedes: è il primo regalo che Adriano gli ha fatto appena arrivato in Italia e con i primi soldi guadagnati.
Conosce così bene la distanza tra Pistoia e Bari, Adriano, perché tutte le volte che va a trovare la sua famiglia di origine, scende in Puglia e si imbarca per l’Albania. Così come ha fatto la prima volta, per un Natale. Lo fece senza dire nulla ai suoi, senza avvertirli. Piombò in camera da letto dei genitori in piena notte, passando dal muro di cinta del giardino. Il cane, che lo riconobbe, non abbaiò e la madre e il padre se lo ritrovarono ai piedi del letto, credendo di sognare.
E Vladimir?
“Sul traghetto persi il foglietto sul quale mi aveva scritto il numero. Non l’ho più incontrato. Ma se dovesse capitare, anche tra mille anni, non avrò difficoltà a riconoscerlo: certe cose rimangono sulla pelle e non se ne vanno più”.
“Ti è mai venuto in mente di provare ad arricchirti scegliendo scorciatoie”?
“No, mai. Prima o poi, i furbi, fanno una finaccia e io, questo dolore, ai miei genitori, non posso permettermi il lusso di darlo”.