PISTOIA. La sera prima aveva incantato quelli del Melos. Ieri invece è andato al Posto nero, il nuovo locale underground, ma double-face della zona industriale di Pistoia, a Sant’Agostino, a raccontare ai pochi astanti cosa voglia dire applicare la musica alle proprie poesie. Anche ieri sera insomma, Lorenzo Del Pero ha provato a spiegare a chi lo ascolta, ma probabilmente e soprattutto a se stesso, chi sia, in realtà, Lorenzo Del Pero.
Un musicista, prima di ogni altra cosa, ci permettiamo di scendere nei dettagli e fornire definizioni capaci di catalogarlo; un poeta, anche, categoria questa però che lo può annoverare tra i suoi adepti a patto che coniughi i versi con la melodia. Il resto non conta o conta per ben altre cose che non stiamo a sviscerare perché di quelle non ci interessa assolutamente nulla. Ma nonostante Lorenzo Del Pero rappresenti una delle anime più pregiate e preziose della cultura musicale di questa città degli ultimi 30 anni, siamo pronti a scommettere che dal suo vortice concentrico non ne uscirà che con le ossa rotte.
Non è un malaugurio, ma una previsionale constatazione di fatti. Lorenzo Del Pero vanta un’anima, un diaframma e una confidenza strumentale benevolmente invidiategli da parecchi colleghi. Crediamo che di tanto ben di dio ne sia anche consapevole, ma ha deciso di privilegiare, con rigorosa precedenza, il sentore del dolore a quello del piacere. Ed intorno al dolore cosmico, che non è il suo, ma quello dell’umanità che finge di non sentirlo e che lo delega a rappresentarla, ha costruito la sua vita, la sua musica, la sua poesia, la sua arte.
Ieri sera, come la precedente, era stato invitato a (ri)promuovere il suo Cd dato alle stampe e alla luce l’anno scorso, una raccolta omonima nella quale hanno preso posto una serie di ballate di cose irrimediabilmente perdute: dall’amore – ma a questo ci ha già pensato De André – a tutto quello di cui si compone un essere umano. Lo ha fatto suonando con Carlo Romagnoli al basso e Nicola Buscioni alla batteria, in sostituzione, quest’ultimo del drums ufficiale, Davide Malito Lenti, allettato dall’influenza. Lo ha fatto come fa quasi sempre, in perfetta inconsapevolezza, come se suonare quello che suona non gli bastasse, come se i limiti imposti dal pentagramma e dall’estensione dell’ugola rappresentassero un limite oltraggioso alla sua ricerca spasmodica di verità.
È destinato a non trovarla, la via d’uscita, Lorenzo Del Pero. Non esiste, non esiste soprattutto sulla strada che sta percorrendo lui. Ma noi tutti che ci deliziamo ad ascoltarlo gradiremmo molto che dalla salvezza ne restasse il più lontano possibile e che continuasse ad inabissarsi nel più profondo degli inferi perché è da laggiù che arrivano, dolorose, le sue richieste d’aiuto, preghiere apocrife, bestemmie in grande spolvero con le quali si genuflette e raccolte le mani sulla chitarra inizia a suonare.
Spesso, nonostante il cappello che indossa dodici mesi l’anno, il nero intorno agli occhi, il mascara sulle ciglia e la frangia che gli copre sistematicamente lo sguardo, i più attenti riescono a scorgere le lacrime: sono quelle che non bagnano, ma che seccano la pelle, la induriscono, la forgiano affinché possa resistere, per quel che gli resta da vivere, lontano dai sorrisi.