L’URBANISTICA DEL FUTURO E IL BILANCIO ALIMENTARE LOCALE

coltivazioni-PISTOIA. L’urbanistica del futuro dovrà sempre più fare i conti con la questione ambientale, con la questione del cibo (che poi sono quasi la stessa cosa ) e con quella delicatissima delle espansioni delle città. In merito a quest’ultima da un lato sembra che la popolazione che vive nelle città italiane sia destinata ad aumentare, configurando così uno scenario in cui saranno proprio le città, in luogo degli antichi stati-nazione ed eventualmente con le loro smart grid, le protagoniste e interpreti dei fenomeni globali; dall’ altro è incontrovertibile che prima o poi le espansioni hanno necessariamente da finire, visto che la crescita in natura è un fenomeno transitorio, inconcepibile in un sistema finito (come la Terra), limitato nel tempo e preliminare ad uno stato stazionario o comunque asintotico. Non per caso, ma ci guardiamo bene dal parlarne, sono state sviluppate varie teorie sulla circular economy, sull’economia della sufficienza, dello stato stazionario etc…

Si dovrebbe però spiegare, nelle scuole, nelle università, ai dirigenti pubblici, agli amministratori, alle forze culturali, che la produzione di cibo è la prima funzione fondamentale che ci dona il suolo, risorsa non riproducibile e limitata, e che esiste una chiara relazione tra consumo di suolo e incapacità di provvedere al bisogno primario di mangiare, un bisogno più primario della casa. L’urbanistica non si è mai curata di questo aspetto nodale ma adesso è maturo il tempo per riconoscere che l’urbanistica del futuro non può privare le persone del cibo e che agli urbanisti dell’oggi e del domani dovrà stare a cuore la casa come il cibo. È maturo anche il tempo per mandare in pensione la retorica che generalmente si nasconde dietro al consumo di paesaggio e territorio, che continua a recitare che l’edilizia non può fermarsi perché altrimenti si fermerebbe il treno della crescita che dà lavoro e reddito. Basta usare il buon senso, prima delle argomentazioni tecniche, per dimostrare che esistono le alternative del recupero e della restaurazione, che impongono la responsabilità di adottare come strategia prioritaria il censimento e la successiva riconversione dei capannoni vuoti e degli immobili invenduti. Anche nei comuni della nostra provincia il patrimonio di edifici abbandonati con le più disparate destinazioni è considerevole e non ancora contemplato nelle sue possibilità di valorizzazione e riadattamento funzionale.

Volendo allora tradurre in campo urbanistico questo aspetto della sicurezza alimentare, da non confondere con quello relativo al fatto che al mondo due miliardi di persone sono vittime di malattie legate al settore del junk food, cibo spazzatura, è stato introdotto, legato alle leggi urbanistiche a tutela dei suoli, il concetto sempre più dibattuto del bilancio alimentare locale. L’idea, peraltro molto meno recente di quanto si possa pensare, è di iniettare responsabilità nelle amministrazioni che nei piani urbanistici decidono di urbanizzare chiedendo preliminarmente di calcolare l’ammontare della quantità di cibo producibile con la terra disponibile. Se in altri termini la terra libera non fosse sufficiente neanche per la metà degli abitanti risulterebbe automatico non precludere un futuro di cibo per realizzare un’edilizia comunque in sovrabbondanza anche in previsione dell’ulteriore inurbamento dalle periferie ed esagerata rispetto alla crescita demografica degli ultimi dieci anni.

L’ 80% degli italiani può mangiare cibo proveniente dalla terra del paese, il restante 20% si trova esposto al rischio prezzi delle importazioni: una delle principali sfide per la politica della nostra regione e dei nostri comuni, politica spesso silente e priva di obiettivi, dovrebbe allora essere quella di esaminare come inserire il bilancio alimentare nei piani urbanistici rivedendo magari la delega all’uso dei suoli. Per rendersi consapevoli delle proprie azioni in termini di consumo di suolo si potrebbe anche ricordare quanto devono spendere gli enti locali (nella gestione ordinaria e nelle emergenze) per compensare (pompe sollevamento, canalizzazioni …) la capacità del territorio di trattenere l’acqua, visto che un ettaro di suolo assorbe, rilasciando gradualmente, 3500 tonnellate d’acqua. Se poi dovessimo pensare di applicare ai consumi di suolo gli stessi meccanismi del protocollo di Kyoto, sapendo perfettamente che il suolo trattiene tre volte l’anidride carbonica (CO2) dell’atmosfera, forse inizieremmo tutti, o almeno chi intravede serie minacce nei cambiamenti climatici e nel riscaldamento globale, a partire dal proprio orticello, a fare dello stop al consumo di suolo il presupposto di ogni azione e riflessione per il cambiamento.

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