MA “OSCURA IMMENSITÀ” RESTA IN PENOMBRA

Claudio Casadio e Giulio-Scarpati [foto Luigi Scardigli]
Claudio Casadio e Giulio-Scarpati [foto Luigi Scardigli]
PISTOIA. Da quella mattina, quando due malviventi, durante una rapina, freddarono, a bruciapelo, la moglie e il figlio ancora adolescente, sono passati 15 anni, è vero. Il dolore, nel frattempo, metabolizzandosi, si è impadronito della memoria, così come l’ineludibile ha preso il posto della rabbia. Però, visto che siamo su un palcoscenico e dobbiamo rendere l’idea e trasformala in commedia, un po’ più di trasporto, forse, soprattutto da parte della vittima (Giulio Scarpati) non sarebbe guastato. Anzi, sarebbe stato ideale.

Oscura immensità invece, andato in scena ieri sera al teatro Manzoni (si replica stasera, ore 21 e domani, ore 16), resta in penombra e non tira fuori dal cilindro della storia realmente descritta da un noirista doc, Massimo Carlotto (L’oscura immensità della morte, questo il titolo originario del libro), quello che il regista, Alessandro Gassmann, avrebbe voluto forse offrire agli spettatori.

L’ergastolano (Claudio Casadio), riesce a calarsi con maggior verosimiglianza nei panni del condannato al carcere a vita, senza però vivere con il dovuto paradossale dolore il cancro diagnosticatogli, quello che gli consentirà, dopo tre lustri di reclusione, di chiedere e ottenere la grazia e morire, così, da uomo libero.

Il carnefice e la vittima sono i due estremi di un paradosso che sul palco avrebbe dovuto indignare, con maggior partecipazione, gli spettatori: non arriva, nel cuore di chi sta in platea, invece, il falso pentimento del malvivente, che non ha mai rivelato il nome del complice della rapina finita in tragedia solo perché si augura che, una volta fuori, potrà godersi la metà del malloppo che il suo compagno di crimine gli ha conservato al sicuro; ma nemmeno il composto turbamento della vittima, alla quale, in un attimo, vengono violentemente e tragicamente strappati moglie e figlio, corrisponde ad un ipotetico ed attendibile trasferimento scenico. Troppo buono, Giulio Scarpati, per perdere aplomb, eleganza e buonismo dilagante; troppo educato alle buone maniere per lasciarsi lacerare da un dolore incommensurabile, fino a far sembrare anche poco credibile la sua ideata e consumata vendetta.

Anche le alchimie sceniche, che evocano, da vicinissimo, i giochi proiezionisti del Riccardo III, firmato anche quello da Alessandro Gassmann, sono meno utili alla narrazione di quanto non lo siano stati per il colosso medievale e dunque un po’ più ingombranti, eccessivamente ed inutilmente didascaliche, senza particolari urgenze, né necessità. L’impressione totale, finale ma anche in corso d’opera, è che entrambi i mattatori, chissà per quale motivo, decidano, scientemente, di non entrare fino in fondo nei rispettivi dolori dei protagonisti; che preferiscano non estremizzare i rispettivi personaggi, smussando gli angoli e le asperità di due realtà decisamente estreme, due postazioni ultime, definitive.

Chissà, sarà dipeso dal fatto che dopo la prima, in tarda serata, cast e staff siano andati, tutti insieme, in un ristorante cittadino a festeggiare il compleanno di Giulio Scarpati, un uomo e un attore al quale, dolore e tragedia, si addicono davvero pochissimo.

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